Il parto in casa: tra ragioni strutturali e credenze religiose
Subito dopo il matrimonio, Abeba resta a vivere ancora per un po’ di tempo con la famiglia di origine, giustificando la sua permanenza con il fatto che in quel periodo la madre si era ammalata e lei doveva continuare ad aiutare in casa. Dalla conversazione non è ben chiaro per quanto tempo sia rimasta con i genitori e quando si sia trasferita a vivere con il marito. Tuttavia, proseguendo con l’intervista giungiamo ad un’altra tappa che scandisce imprescindibilmente la vita di una donna: la gravidanza.
Abeba, ha partorito per la prima volta all’età di 16 anni. Il parto è avvenuto in casa dopo tre giorni di travaglio durante il quale il bambino, ormai morto, è rimasto intrappolato nella vagina della madre per 48 ore, visto che la donna ha incontrato una grande difficoltà nel farlo uscire. Questa complicazione è avvenuta a causa della sproporzione della testa del nascituro rispetto al bacino della madre che, come ho già anticipato all’inizio della presentazione della storia di Abeba, aveva subito un arresto nello sviluppo causato dalla malnutrizione.
Partorire in casa è un’altra pratica molto diffusa in Etiopia, come mi è stato confermato da tutte le testimonianze che ho raccolto durante la ricerca, e s’inserisce nella stessa retorica dell’early marriage e delle pratiche tradizionali dannose (harmful practices). Come già detto, il matrimonio in giovane età costituirebbe la base materiale e morale di parti altrettanto precoci che vanno a ledere la salute psicofisica della giovane donna. Gravidanze che si concludono molto spesso nell’ambiente domestico, esponendo ulteriormente la partoriente al rischio di complicanze che potrebbero rivelarsi mortali o dannose per il suo benessere. Tuttavia, queste politiche di prevenzione alla salute materna non considerano alcuni fattori che rendono sterile la retorica della loro prevenzione. In primo luogo, secondo la WHO l’età del parto non scende quasi mai sotto i 16 anni (solo 0,4% partorisce intorno ai 15 anni), un’età sicuramente giovane ma che, in condizioni normali di sviluppo, permette alla donna di raggiungere la sua completezza fisica. Purtroppo però, la possibilità di ottenere la maturità fisica è spesso preclusa da un’endemica condizione di malnutrizione. Inoltre, al di là dei rischi e degli imprevisti legati ad ogni singolo evento di gravidanza, la percentuale più alta di malattie e di morte si riscontra tra i poveri e anche per quanto riguarda la percentuale di complicanze al momento del parto e di infezioni infantili il numero è decisamente più alto tra le persone che vivono in disagiate condizioni di indigenza materiale. Inoltre, questi gruppi economicamente deprivati sarebbero anche quelli più bisognosi di cure, ma per la cosiddetta “legge inversa della cura”[1] sono quelli che hanno meno possibilità ad ottenerla. Ciò dipende dai limiti imposti dalle loro condizioni economiche e per le carenze della struttura assistenziale, dislocata in maniera ineguale sul territorio. Eppure, questi aspetti non sembrano essere presi in considerazione da quanti parlano di prevenzione e di sensibilizzazione verso l’abbandono di pratiche consuetudinarie, la cui persistenza, legata a “cattive credenze”, costituirebbe il maggiore fattore di rischio.
Ad esempio, durante l’intervista con un’ostetrica che lavora presso l’health centre di Adigudum (un villaggio vicino a Mekelle), è emerso che se in questi ultimi anni sono stati fatti molti progressi per quanto riguarda la pianificazione familiare delle nascite, la sensibilizzazione nell’uso dei contraccettivi e la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, c’è ancora molto da fare per migliorare i servizi dell’assistenza ante-natale e post-natale e per rendere consapevole la gente dell’importanza di rivolgersi alle strutture sanitarie al momento del parto. Secondo l’ostetrica molte persone perseverano ancora nel seguire la tradizione e nel rifiutarsi di andare nei centri medici durante la gravidanza. In questo modo, prosegue la donna, molti dei pericoli e dei danni connessi alla gravidanza e al parto potrebbero essere evitati poiché il personale medico è qualificato a fronteggiare le complicazioni che possono verificarsi durante il travaglio. Quando questo si presenta, al contrario, le TBAs (le levatrici tradizionali) che accorrono a casa per aiutare a partorire, non hanno né le competenze né gli strumenti adatti per intervenire sulla partoriente ed evitarne le complicanze e i danni. Il travaglio prolungato ostruito lascia le donne ferite e nella quasi totalità dei casi da me considerati, porta alla morte del nascituro. Così, oltre alle lesioni fisiche, si aggiunge una condizione di sofferenza psicologica connessa alla perdita del figlio.
Nonostante la gravità delle conseguenze cui la scelta di partorire a casa potrebbe condurre e il lavoro di sensibilizzazione fatto a riguardo, il numero di donne che decide di partorire in casa è ancora elevatissimo e la condanna da parte delle istituzioni e delle organizzazioni umanitarie sulla sua dannosità non sembra costituire un deterrente per la sua riduzione. Secondo la WHO, nel 2005, la percentuale dei parti avvenuti in casa è pari al 94,1%, contro il 5,3% delle donne che si sono servite delle strutture mediche per portare a termine la gravidanza.
La persistenza di questa consuetudine può essere giustificata facendo appello a due diversi tipi di spiegazioni che potremmo definire da un lato strutturali, e dell’altro rituali (avendo a che fare con elementi che appartengono alla religiosità del cristianesimo etiope).
[1] Hart J.T. (1971), The inverse care low, Lancet, 1971, vol.1, pp. 405-412.