La ricerca sul campo: una questione di metodo

Ormai da diversi decenni, in antropologia si è scardinato il mito di una “oggettività etnografica” nel senso di un’assenza d’interferenza di fattori esterni (diciamo anche personali, cioè relativi a chi fa ricerca) che esulino dagli schemi scientifici con cui la scienza positivista aveva costruito il suo peculiare modello d’indagine scientifica, basato sulla cumulatività, esaustività e coerenza dei dati in grado di portare ad una specie di “verità” assoluta. Lo scopo del programma positivistico tradizionale è stato la produzione di conoscenza della realtà vera per tutti, sempre e ovunque. Secondo il positivista, la struttura della realtà è una sola e la scienza può metterla a nudo. Per molto tempo, quindi, l’etnografia fu considerata «come il primo gradino di un processo conoscitivo, di tipo lineare e cumulativo, in grado di partire dalla “raccolta dei dati” sul campo, di condurre alla conoscenza di una società e/o di una cultura specifiche e di giungere infine alla formulazione di generalizzazioni, e possibilmente di “leggi”, relative alla sfera della cultura e del comportamento sociale»[1]. Questo procedimento non richiedeva solo l’uso di un metodo scientifico basato sulla separazione dei fatti (ciò che è) dai valori (speculazioni di ciò che dovrebbe/potrebbe essere) e su una comparazione controllata delle ipotesi di ricerca, ma implicava anche l’invisibilità del ricercatore. Tutti i suoi pensieri, sentimenti, libertà di scelta e, quindi, la sua dignità, nel resoconto scientifico dovevano essere messi da parte: come se lo studioso fosse stato una macchina impercettibile, intenta a registrare ed analizzare i dati obiettivamente, senza alcun nesso con i soggetti. Unica concessione poteva essere quella di sottolineare l’esperienza della ricerca rubricandola sotto la parola “viaggio”. Anzi, la maggior parte degli etnografi sottolineano la fase di distanziamento geografico come prima tappa del processo, una tappa che segna una cesura netta tra un prima e un dopo, tra l’essere qui e l’essere là, come dice Geertz. Però mentre spesso leggiamo dell’antropologo intento a fare i bagagli, a scegliere le medicine necessarie, i libri da portarsi, i vestiti che si adattino ad ogni cambio di temperatura, a salutare gli amici, in preda alle paure e all’angosce o all’eccitazione che l’idea dell’esperienza sul campo produce, per molto tempo difficilmente abbiamo letto di altrettante paure, desideri, volontà, difficoltà o gioie mentre si trovava sul campo.

È solo dagli anni ’70 che si è affermata l’idea che è il ricercatore, con il suo universo valoriale e con la sua curiosità, a contribuire a costruire l’oggetto d’indagine. Come sostiene D’Andrade (1997), interessato allo studio del significato che gli uomini danno ai comportamenti, l’etnografo ha la capacità di provocare, e dunque di influenzare i fatti che studia, già con una semplice domanda.

Piasere riassume così il pensiero dell’antropologo:

Ecco allora che una domanda posta per capire qualcosa rappresenta “un’operazione sperimentale molto semplice” (1997, pag. 131), e gli etnografi hanno almeno due buoni motivi per fare esperimenti simili; primo, perché può essere difficile poter osservare quanto interessa aspettando semplicemente che ciò accada: alcune cose “accadono” più facilmente se si fanno domande; secondo, è difficile capire sempre se tra X e Y c’è davvero una relazione, dal momento che nei contesti naturali dopo X si possono verificare anche A, B e C, oltre a Y: fare una domanda può essere utile per capire quale o quali di questi è reputato essere collegato a X. D’altra parte, sottolinea l’autore, i sistemi di significati culturali si presentano molto bene a questo tipo di sperimentazioni e le persone, anche quando non fanno gli etnografi, “si sperimentano vicendevolmente di continuo, ricorrendo ad una varietà di forme culturali; per esempio con domande dirette o indirette; esprimendo disapprovazione per ricordare una promessa fatta seriamente, con bugie tese a capire se una persona realmente sa qualcosa; trattenendo ammissioni o reazioni attese per scoprire se qualcuno sta dicendo qualcosa solo per produrre un effetto”(D’Andrade, 1997). Per cui, anche una domanda posta solo per sapere qualcosa, implica “prove sperimentali”, e gli etnografi usano una strategia che mescola “tecniche sperimentali e semplici domande”. E la strategia degli etnografi è semplicemente indotta dalla caratteristica intrinseca di ciascun sistema di significato che implica invariabilmente delle affezioni, nel senso che “gli uomini sembrano avere una risposta emozionale a quasi tutti gli stimoli” (ivi: 122).

Quindi, come si deduce da queste affermazioni, il fenomeno indagato non sussiste al suo studioso come qualcosa pronto per un atto di maieutica, che gli strumenti dell’indagine scientifica portano alla luce, ripulendolo di tutte quelle opacità con le quali in un primo momento si era presentato; al contrario, le realtà vengono investite di un senso nell’accordo, nella negoziazione che si instaura tra due soggetti dialoganti.

Nel tempo si è dato credito all’idea che un corretto studio scientifico dell’uomo richiede di considerare il coinvolgimento personale non come male necessario, bensì come fulcro del metodo. È proprio quel metodo che Piasere chiama del “vivere con”, della “vita come metodo”, che permette a noi antropologi di non rimanere semplicemente affacciati a guardare le vite degli altri (obiettivo che si potrebbe raggiungere facendo un lavoro puramente bibliografico, senza scomodarci ad “andare là”), ma di impregnarsi della vita degli altri. “L’etnografo, quasi come una spugna, s’impregna di esperienze altrui, di schemi altrui, di analogie altrui, di emozioni altrui, di posture altrui” (Piasere, 2002). Per l’autore, dunque, è l’impregnazione, più che le note scritte in loco, che permette di stendere il resoconto etnografico. Esiste, allora, un intimo nesso tra metodi di ricerca sul campo e conoscenza. Questa connessione l’ho vissuta in prima persona nel procedere del mio lavoro, man mano che penetravo sempre più intimamente nel tessuto sociale della realtà in cui mi sono trovata a vivere, intanto che la mia esperienza entrava in risonanza con quella dei miei informatori e dalle nostre interazioni (non riducibili al solo scambio verbale) si modellavano le mie piste teoriche e acquistavano coerenza le mie conoscenze.

Uno dei primi studiosi a comprendere che il ricercatore influenza ed è influenzato a sua volta, in un moto conoscitivo circolare, dall’esperimento di esperienza del campo fu George Devereux. Psicoanalista di professione, con una formazione antropologica, si basò sui concetti di transfert e contro-transfert per giungere ad affermare che l’essenza della situazione di osservazione è lo studio dell’osservatore, più che quello del soggetto. L’osservatore si troverebbe in una condizione paradossale poiché nell’osservare crea perturbazioni che provocano un comportamento dell’osservato che influenza a sua volta l’osservatore; dunque l’aspetto soggettivo della ricerca non è fonte di errori, ma, secondo il pensiero di Devereux, è la principale fonte d’informazione.

Da questa soggettività continuamente rinegoziata e rimodellata dall’interazione quotidiana con i miei interlocutori, ho cercato di ragionare sulle criticità della ricerca sul campo e di trovare continuamente spunti teorici nuovi, piste di riflessioni differenti ed epistemologie che raccordassero la caoticità e la dissonanza del procedere dell’esperienza: in sintesi osservando, di riflesso osservavo me stessa mentre cercavo di partecipare dell’universo locale. Ed è proprio questo che è richiesto ad un antropologo mentre si trova a vivere la sua esperienza di campo: osservare partecipando. Un metodo, una predisposizione che si fonda sullo stretto contatto con le persone nel corso della vita quotidiana, dove è possibile interpretare discorsi e azioni nel più ampio contesto fornito dall’interazione sociale e da credenze e valori culturali, al fine di arrivare ad una comprensione olistica della cultura e della condizione umana, anche se come già denunciava Nadel (1978) nei primi anni Cinquanta, non è così semplice individuare l’ “essenza”dei fenomeni o dei gruppi sociali.

Nata inizialmente come criterio d’indagine che prevedeva l’occultamento dello studioso mentre era sul campo, l’osservazione partecipante ha dunque ridefinito nel corso dei decenni i suoi contorni teorici fino ad arrivare a considerare le perturbazioni del ricercatore una parte fondamentale del metodo. L’osservazione partecipante, e dunque la ricerca sul campo vera e propria, si caratterizza come un accumulo lento ma costante di piccoli eventi cui il ricercatore partecipa, stimola ed influenza, puntando più o meno coscientemente la propria attenzione. Scrive Piasere (2002): “l’osservazione partecipante non solo si esercita in situazioni che restano tendenzialmente naturali, ma è anche una modalità di acquisizione tendenzialmente naturale: gli etnografi conoscono come conosce la gente comune, con un aumento di attenzione”. Questa presunta naturalità rende il compito dell’etnografo ancora più difficile. Non essendoci un metodo preciso né degli spazi e dei momenti codificati, è necessario cercare di innalzare costantemente il livello di attenzione, per poter assorbire il più possibile. Infatti, il lavoro sul campo:

non si riduce all’osservazione di precisi momenti (come ad esempio un rituale) né si conclude nel dialogo di specifici soggetti (sebbene questi rimangano fondamentali). Cose certo importanti ma che assumono il loro pieno significato solo dentro quel continuo lavoro di costante attenzione, magari fluttuante e distratta, a ciò che ci circonda, a ciò che succede intorno a noi (sia una visita di cortesia o l’ascolto casuale di una conversazione in un mercato o nella sala d’attesa di un terapeuta) e che ci consente, per sedimentazione, di penetrare l’esperienza (Schirripa, 2005).

Stare sul campo è “un capire attraverso la frequentazione” (Piasere, 2002), è una penetrazione lenta e faticosa che implica l’assunzione di un atteggiamento paziente, ricettivo, mai smanioso e sbrigativo e che convive però con la consapevolezza che ci lasciamo dietro perdite di ogni genere.

[1] Fabietti U., Matera V. (1997), Etnografia. Scritture e rappresentazioni dell’antropologia, Carocci Editore, Roma.