La storia di Abeba: tra povertà materiale e sofferenza della malattia
Incontro Abeba per la prima volta al Fistula Hospital di Mekelle. Rispetto alle altre pazienti, mi colpisce subito per il suo aspetto fisico e per la sua estrema magrezza che la fa apparire poco più di una bambina. Abeba, infatti, è molto giovane. Ha da poco compiuto i sedici anni, ma le sue condizioni fisiche non le consentono di dimostrare la sua età.
Iniziamo una conversazione abbastanza informale poiché prendere in mano il taccuino degli appunti e accendere subito il registratore mi sembra un gesto del tutto fuori luogo per la delicatezza della situazione. Mi presento e cerco di giustificarle la mia presenza in ospedale e Abeba mi accoglie immediatamente con un sorriso che allenta la tensione e l’imbarazzo iniziali. Si sviluppa così una lunga intervista densa di emozioni e di aspetti che meritano un’analisi dettagliata. Il suo atteggiamento, all’inizio, è molto sereno e sembra ben disposta a raccontarmi la sua storia di vita. Incoraggiata dalla sua solarità e dalla buona predisposizione che mostra nei miei confronti, anch’io abbandono le resistenze dovute alla timidezza e cerco di superare la primaria apprensione con una battuta sul suo aspetto fisico: questa in realtà costituirà la prima drammatica conferma del suo vissuto di miseria materiale. La ragazza, infatti, è visibilmente malnutrita ed ha una conformazione fisica sottosviluppata rispetto a quella che si addice alla sua età, una situazione aggravata anche dagli aspetti logoranti della malattia. Quando le dico scherzosamente che sembra una bambina, mi risponde sostenendo “si perché sono molto magra e mangio sempre poco”.
La malnutrizione, l’impossibilità per molte persone di fare pasti regolari e con un apporto calorico sufficiente al fabbisogno giornaliero e il conseguente sottosviluppo fisico, sono condizioni che caratterizzano la vita di un’altissima percentuale di soggetti. I dati riportati sul sito della WHO, relativi al 2005-2007, stimano che il 41% della popolazione etiope si trova al di sotto del livello minimo di consumo energetico. Secondo uno studio[1] condotto da un’équipe formata da medici, esponenti della cooperazione italiana e rappresentanti del ministero della salute etiope, incentrato sul doppio fardello della malattia (la povertà e l’ineguaglianza), la malnutrizione colpisce oltre la metà della popolazione infantile, che pertanto subisce un arresto dello sviluppo organico o soffre di deperimento a causa di un’acuta denutrizione.
I dati dello studio interdisciplinare sono coerenti con quelli prodotti dalla World Health Organization che ha analizzato la nutrizione dei bambini al di sotto dei 5 anni (2005). Le stime restituiscono un quadro allarmante: il 34,6% degli infanti è sottopeso, il 50,7% ha subito un arresto nello sviluppo e il 12,3% porta i segni di un grave deperimento. Sottolineo queste cifre perché, per la loro altissima percentuale, ci permettono di iniziare ad inquadrare quanto finora è stato detto solo a parole, ossia ci danno le dimensioni di un contesto profondamente inficiato da condizioni deprivanti di esistenza. La malnutrizione è anche la causa scatenante di molte malattie infettive e non, che conducono ad un alto tasso di mortalità infantile. Prendendo sempre come punto di riferimento il sito della WHO, le percentuali riferite all’Etiopia attestano che il tasso di mortalità infantile è di 96,8 per 1000 nati vivi, mentre il tasso di mortalità al di sotto dei cinque anni è di 123 per 1000 nati vivi (stime relative all’anno 2005). Ancora una volta queste cifre ci permettono di sottolineare la stretta interdipendenza tra povertà, ineguaglianza e salute. Inoltre, come ho già accennato, l’attenzione alla malnutrizione, legata ovviamente a precarie situazioni finanziarie, è fondamentale nella ricostruzione del problema della fistola ostetrica poiché le sue implicazioni a livello di sottosviluppo fisico hanno un ruolo primario nell’insorgenza della malattia. Infatti, è a causa di bacini troppo stretti, la cui conformazione è stata bloccata da un’insufficiente apporto calorico giornaliero, che le donne incorrono nel rischio di travagli difficoltosi, con la conseguente possibilità di sviluppare una fistola.
La giovane proviene da un piccolo villaggio rurale del Tigray, lontano diverse ore di macchina dalla sua capitale amministrativa e a parecchie ore di cammino da qualsiasi centro cittadino. La vita per una ragazza di villaggio è scandita da tappe fisse, come ho potuto evincere da tutte le testimonianze delle donne malate, che come Abeba provenivano dalle zone più remote del paese. L’infanzia è piuttosto breve e spesso è caratterizzata dal lavoro anzi che dalla frequentazione scolastica.
“Non sono mai andata a scuola perché dovevo aiutare in casa. Qualcuno dei miei fratelli c’è andato ma io no perché eravamo poveri e io dovevo aiutare i miei genitori” e poi prosegue “l’acqua nel villaggio non c’era perciò dovevamo fare tanta strada per trovarla e io li aiutavo”.
Abeba proviene da una famiglia molto povera e, come si deduce da questa affermazione, deve subordinare la sua istruzione a delle priorità esistenziali che le impongono di entrare fin da piccola nella gestione economica della famiglia. Nel contesto di una difficile economia del quotidiano le priorità appaiono differenti da quelle dell’osservatore esterno. Ci troviamo di fronte ad un altro dato che ribadisce con forza la mancanza di opportunità per molte persone di scegliere i termini della propria vita, per sottostare alle prescrizioni che le dure condizioni d’esistenza gli impongono.
La mancanza di un’istruzione di base e l’abbandono scolastico sono due fenomeni che caratterizzano molti paesi in via di sviluppo. In Etiopia, il numero totale di adulti con un’istruzione di base è pari al 38% della popolazione nazionale, ma all’interno di questa cifra se ne racchiude un’altra che sottolinea la disparità di accesso all’istituzione scolastica tra uomini e donne. Infatti del 38% di adulti scolarizzati il 50% sono uomini, mentre il tasso di scolarizzazione per le donne è del 26,6%.
Il grado d’istruzione è strettamente legato al livello socioeconomico del contesto familiare e come notava Fassin (1992) il grado di scolarizzazione influenza anche il grado di prevenzione e quindi, successivamente, le modalità di ricorso alle cure. La determinazione della povertà e dell’analfabetismo sull’accesso alle cure è stato l’oggetto di numerosi studi[2] in Africa nera e, seguendo sempre il pensiero di Fassin, quello che si deduce è il fatto che “le ineguaglianze socioeconomiche sono più di semplici ineguaglianze finanziarie”. Esse condizionano le opportunità delle persone fin dalla nascita e avranno un ruolo determinante per lo sviluppo di tutti gli altri passaggi significativi delle loro vite, comprese la malattia e il suo percorso di risanamento.
All’età di 12 anni Abeba viene data in sposa. Il matrimonio, come è facile dedurre dalla giovane età, non rispecchia un suo desiderio personale e la ragazza non è nemmeno a conoscenza del futuro marito, più grande di lei di diversi anni. L’unione matrimoniale, pertanto, non rientra nella sua volontà, ma rappresenta il desiderio e la necessità dei genitori. Infatti, fino a pochi anni fa e lontano dai centri urbani, l’aspirazione personale di contrarre l’unione, un’eventuale inclinazione reciproca, la libera scelta, il mutuo consenso non erano assolutamente presi in considerazione e ancora oggi la libertà di scegliere il proprio compagno/a di vita è difficilmente realizzabile.
Il matrimonio precoce combinato è una pratica ampiamente diffusa nei paesi in via di sviluppo, soprattutto nelle aree rurali, ed è profondamente radicata nella cultura etiope. Tutte le donne vittime di fistola ostetrica di solito sono state obbligate dalla loro famiglia a sposarsi in un arco di età che varia dai 7 ai 18 anni. Oggi il matrimonio precoce è considerato una pratica culturale dannosa e come tale viene condannata dalla legge. Molte associazioni non governative, ma anche gli apparati di stato, stanno combattendo da anni con campagne di sensibilizzazione al fine di cancellare questa pratica che, secondo l’opinione comune, è nociva per le donne sia da un punto di vista fisico (essendo considerata come una delle principali cause dell’insorgenza della fistola ostetrica, poiché apre il terreno ad inevitabili gravidanze in giovane età), sia da un punto di vista psicologico ed economico (poiché le giovani adolescenti non appena si sposano interrompono i propri studi e conseguentemente la possibilità di progettare e costruire il loro futuro). Tuttavia, quando chiedo ad Abeba perché secondo lei sono i genitori ad organizzare il matrimonio e non direttamente i futuri sposi e se lei ha fatto nulla per contravvenire alle indicazioni della famiglia, risponde:
“Questa è la nostra cultura. I genitori organizzano i matrimoni perché hanno sempre fatto così, è la cultura, capisci?” e aggiunge “io non potevo rifiutarmi, ma allora non sapevo che avrei avuto questa malattia”.
Abeba accetta il matrimonio come una tappa imprescindibile della vita di una donna, convalidata e mantenuta nel tempo dalle regole culturali e comunitarie su cui poggia la sua comunità. Non oppone alcuna resistenza, anzi quando le chiedo perché non abbia cercato di rivendicare una libertà di scelta mi risponde visibilmente sorpresa: “perché avrei dovuto farlo?” e ribadisce che il matrimonio combinato è un’usanza ben radicata nel suo villaggio (che per Abeba corrisponde con la società in toto, senza presupporre la possibilità di azioni alternative) e che all’epoca non avrebbe mai pensato che sarebbe stato il motivo della sua sofferenza. Dunque, non a tutti i livelli della scala sociale, il matrimonio precoce combinato è considerato un presupposto per lo sviluppo della fistola ostetrica, né tanto meno una pratica lesiva per la donna. La stessa Abeba ammette che al momento dell’unione nessuna controindicazione sembrava minare la validità del matrimonio organizzatole dalla famiglia. La percezione di rischio che ammanta l’early marriage, è una costruzione politica incoraggiata da una certa élite, sia a livello locale, nazionale che internazionale, che abbraccia un orientamento teorico di chiaro stampo occidentale. Lontano da questi circuiti, soprattutto nelle zone più remote del paese, dove le campagne di sensibilizzazione al tema hanno minor capacità di penetrazione, l’early marriage non è considerato un fattore di rischio a determinate forme di sofferenza, anzi potrebbe esserlo una sua mancata adesione. Come testimoniato anche da altre intervistate affette da fistola ostetrica, quella di sottostare ad un matrimonio combinato è una questione culturale e il venir meno agli obblighi matrimoniali imposti dalla famiglia significherebbe esporsi a sicure ripercussioni sociali e a forme di marginalizzazione e ostracizzazione non solo da parte dei genitori, ma dalla comunità intera.
Il fatto che l’early marriage resti un’usanza ancora diffusamente praticata all’interno del paese, nonostante la sua condanna da parte delle istituzioni locali e internazionali, potrebbe essere spiegato abbracciando la prospettiva di Alessandra Facchi (2001) a proposito del quadro normativo dei paesi africani. Secondo l’autrice, la vita politica di questi stati è caratterizzata dall’esistenza parallela di due ordinamenti: quello formale-nazionale e quello consuetudinario-locale.
Tenendo conto della coesistenza di questi due differenti assetti legislativi, non sempre la soluzione migliore per la risoluzione di un problema (come l’early marriage) è l’innalzamento del livello d’informazione e di educazione delle donne africane. Se senza dubbio informazione e programmi educativi possono fare molto, non sono però certamente in grado di eliminare un habitus così radicato e diffuso nel corpo sociale, come il matrimonio precoce. Tanto è vero che le campagne contro l’early marriage promosse sia da organismi internazionali ONG, sia da governi locali hanno avuto degli effetti positivi nei confronti di alcune élite, ma non hanno esercitato alcuna presa sui ceti popolari e le popolazioni rurali, nonostante gli ingenti investimenti stanziati. Questo tipo di policy nasce da un’interpretazione del cambiamento che affida illuministicamente allo sviluppo dell’educazione e all’innalzamento del livello culturale la trasformazione della società. È erede di un’ottocentesca pedagogia sociale che ignora le maniere complesse e contraddittorie attraverso cui cambiano le società, e soprattutto di come si trasformano contesti quali quello africano che sono sottoposti a spinte divergenti, dove ogni innovazione si trova a fronteggiare l’inerzia di un tessuto tradizionale radicato da sempre nei comportamenti e nelle abitudini delle persone (ibidem). L’early marriage è una di quelle consuetudini sedimentatesi nel tempo e iscritte nella memoria collettiva che si dispiegano nella lunga durata del quotidiano governando in maniera irriflessa le opinioni delle persone. Pertanto non è semplice capire l’idea che ne hanno le protagoniste, che alla domanda sul perché si sono sposate così giovani o hanno accettato una volontà che non veniva direttamente da loro, danno tutte la stessa risposta: “Perché si è sempre fatto così”. Una risposta drastica ed elusiva che ricorre all’autorità della tradizione per assumere nella sua inerzia un’usanza trasformandola in una spiegazione, che può significare qualsiasi cosa. Con essa siamo nell’ambito di quella modalità conoscitiva che gli antropologi definiscono “emica”, e che riguarda i significati condivisi e i modi di descrivere la propria cultura tipico di chi ne fa parte.
Assumendo questo tipo di prospettiva interna e considerando il matrimonio precoce come un evento ordinario e “naturale” si capisce perché in tutte le vittime di fistola ostetrica intervistate, la percezione della malattia quale conseguenza del loro matrimonio combinato in giovane età è emersa solo in seguito. Per la precisione, l’early marriage quale pratica dannosa per l’integrità fisica, morale e sociale della donna è una ricostruzione eziologica del problema che, per la quasi totalità delle vittime, si è formata nel momento in cui hanno subito un processo di ospedalizzazione.
Riporto un piccolo stralcio dell’intervista avuta con Abeba a conferma della natura “medicalizzata” delle affermazioni addotte dai pazienti circa le cause del loro malessere e del ruolo giocato dal matrimonio precoce nella produzione della malattia.
D: Quale pensi che sia la causa del tuo problema?
A: Perché mi sono sposata troppo giovane?
D: Perché i tuoi genitori ti hanno fatto sposare quando eri ancora molto giovane?
A: Si è per quello
D: Hai sempre pensato che fosse stato l’early marriage a causare il tuo problema?
A: No, prima non lo sapevo, ma adesso lo so. Adesso i medici mi hanno spiegato che mi sono ammalata perché mi sono sposata troppo giovane.
A: Se potrò ritornare al mio villaggio dirò a tutte le ragazze di non sposarsi se sono giovani, sennò si ammaleranno come me.
Ritornerò successivamente sulle retoriche delle campagne contro l’early marriage, dell’elaborazione della malattia nei termini di una “cattiva cultura”, della condanna delle azioni individuali che perpetrano concezioni culturali e simboliche “sbagliate”, e delle ripercussioni che tali politiche hanno a livello sociale, tanto nelle risposte comportamentali attivate in ambito comunitario, tanto nelle ulteriori forme di marginalizzazione subite dalle vittime di fistola ostetrica.
Per ora, giacché il matrimonio precoce combinato è stato più volte citato, ma non è mai stato sottoposto ad un esame attento della sua composizione e dei suoi significati, credo sia giusto toglierlo dalla nebulosa in cui è avvolto e analizzarlo in maniera dettagliata. Bisogna andare ad esaminare bene la funzione che l’early marriage ha nel sistema complessivo dei rapporti economici e sociali di tali comunità. Prezzo della sposa, poligamia, matrimonio combinato, età prematura della sposa e mgf fanno parte di una struttura economico-simbolica fondata su un sistema complesso di strategie matrimoniali che caratterizza il tessuto sociale di gran parte delle società africane. Oltre a queste forze sociali e culturali che giustificano e rendono vitale la pratica consuetudinaria dell’early marriage, bisognerà anche vedere che significato assume il matrimonio per l’esistenza di quelle donne, come Abeba, che hanno nella vita matrimoniale l’unica possibilità di affermare il loro status di donna e far rivendicare i diritti collegati con la posizione di moglie e di madre. Il fatto che le politiche di sensibilizzazione verso la condanna e l’abbandono di questo istituto abbiano fatto breccia solo a determinati livelli della scala sociale ed economica, all’interno di quell’élite cittadina che può godere di un tenore di vita dignitoso e può usufruire dei servizi che garantiscono l’empowerment della popolazione in generale, e di quella femminile in particolare, non può essere spiegato attraverso teorie culturaliste o facendo appello alle attitudini psicologiche delle persone. La diversa permeabilità delle politiche umanitarie trova la sua ragion d’essere proprio in quelle strutture economiche e sociali che sono la fonte di cambiamento anche delle istituzioni culturali e che offrono alle persone l’opportunità di negoziare i termini della propria esistenza. In un contesto come quello in cui vive la nostra protagonista e che costituisce lo scenario geografico, sociale ed economico di centinaia di altre donne e di tutte le vittime di fistola incontrate, in cui la povertà, l’assenza o l’inaccessibilità di istituzioni demandate al compito di potenziare la posizione femminile a livello scolastico, lavorativo ed economico, che conseguenze potrebbero avere la condanna dell’istituto dell’early marriage e il suo progressivo abbandono? Ci occuperemo di questi aspetti successivamente, dopo aver preso in considerazione l’istituto del matrimonio nelle sue componenti specifiche e nelle sue dinamiche relazionali e dopo aver analizzato anche gli altri passaggi, oltre a quello del matrimonio, che caratterizzano la vita di Abeba.
[1] Accorsi S., Kedir N., Farese P., Dhaba S., Racalbuto V., Seifu A., Manenti F. (2009), Poverty, inequality and health: the challenge of the double burden of disease in a non-profit hospital in rural Ethiopia, Royal Society of Tropical Medicine and Hygiene (2009), 103, pp. 461-468.
[2] Per un’analisi più completa si veda J.N. Laskere (1981); F.A.Akesode (1982); W.M.Gesler (1979); D.T. Herbert e N.B. Hijazi (1984).