L’Etiopia e i rapporti con le potenze europee

Nel 1869 venne aperto il Canale di Suez, che favorì i rapporti tra le potenze coloniali e il Corno d’Africa. La Gran Bretagna concentrò i suoi interessi sul controllo delle risorse idriche della regione, il corso del Nilo, i suoi affluenti e il Lago Tana; la Francia si dedicò alle comunicazione e l’Italia era interessata alle terre fertili, terreni adatti per lo sviluppo di un colonialismo demografico.

I rapporti che Tewdros II cercò di instaurare con Francia e Inghilterra, anche in vista di un possibile sostegno militare contro l’Egitto, furono presto rovinati dalle mire espansionistiche di queste potenze europee. Dopo la sconfitta di Tewdros II da parte degli inglesi, e la sua conseguente elezione a martire nazionale, i raggiri delle grandi potenze per influire sugli assestamenti dinastici, appoggiando un candidato contro l’altro, furono all’ordine del giorno: un esempio fu Menelik II con l’Italia.

Dopo l’instaurazione del protettorato in Egitto, la Gran Bretagna divenne il “vicino di casa” dell’Etiopia. Inoltre, i disegni imperiali di Londra e Parigi si scontrarono nell’alta valle del Nilo, dove la Francia cercò di avanzare per congiungere i possedimenti acquisiti dal Senegal attraverso i bacini del Niger e del Ciad, e l’Inghilterra non intese cedere per non spezzare l’asse che doveva collegare il Capo con il Cairo.

Per quanto riguarda il colonialismo italiano, esso si sviluppò in ritardo rispetto alle altre potenze europee. L’Italia arrivò all’Unità solo nel 1861 e prima di intraprendere l’impresa coloniale, fu costretta a intervenire in problematiche interne. Il ritardo, scambiato per disattenzione, si spiegò proprio con un calcolo più razionale delle convenienze del Paese in questa fase particolare della sua vicenda nazionale. Dopo la conquista dell’Eritrea[1], proclamata colonia italiana il 1° gennaio 1890, l’Italia sperò di occupare l’intero territorio etiope con lo stratagemma di spalleggiare Menelik contro Yohannes, fin dal 1883. Tuttavia, se durante gli anni di reggenza nello Shoa Menelik collaborò con gli italiani, favorendo la loro penetrazione negli equilibri politici locali, la sua esperienza imperiale si aprì con la rottura dei rapporti con il vecchio alleato, a causa delle controversie intorno al Trattato di Uccialli. Firmato nel 1889 tra Italia ed Etiopia, il Trattato era stato investito di significati differenti tra le due parti in causa; nelle intenzioni dell’Italia, infatti, il Trattato aveva il valore di un accordo di protettorato, mentre per Menelik era semplicemente un accordo di alleanza. Le divergenze interpretative riguardarono, in particolare, l’articolo XVII: mentre la versione italiana riportava che il negus acconsentiva a servirsi del re d’Italia in tutte le questioni internazionali, nella versione amharica egli “poteva” avvalersi dell’appoggio italiano, senza obblighi di esclusività. La denuncia e l’abrogazione del trattato da parte di Menelik II nel 1893 infranse le speranze italiane di una penetrazione per via diplomatica e resero inevitabile lo scontro armato. Mentre l’Italia si preparò alla guerra sapendo di poter sfruttare a proprio vantaggio le rivalità tra i ras locali, Menelik II riuscì ad organizzare un imponente esercito con l’aiuto di tutte le regioni etiopi. Dopo alcune battaglie vittoriose (una delle quali a Mekelle, nel mese di gennaio), l’esercito di Menelik trionfò il 1° marzo 1896 nella battaglia di Adua, infliggendo a una potenza europea una delle più grandi sconfitte della storia coloniale[2]; la vittoria fu poi sancita ufficialmente con il trattato di Addis Abeba, che riconobbe l’indipendenza dell’Etiopia e, nel 1900, il confine tra l’Etiopia e la colonia italiana d’Eritrea fu individuato nel fiume Mareb.

In Etiopia, gli anni successivi alla battaglia di Adua segnarono l’apice del potere di Menelik, che modernizzò ulteriormente l’organizzazione statuale, attraverso la nascita dei ministeri, della burocrazia e dell’amministrazione, definì i confini dell’impero, attraverso gli accordi con le confinanti potenze coloniali e si impegnò per apportare miglioramenti in vari settori (da quello viario a quello scolastico). La fine del suo potere fu preannunciata da una lunga malattia, che accompagnò l’imperatore negli anni che precedettero la sua morte nel 1913 e che aprì le complesse vicende della successione al potere. Dopo l’esautorazione nel 1910, da parte dei suoi oppositori politici, di Taytu, la moglie di Menelik, che aveva giocato a fianco del marito un ruolo politico centrale (Zewde, 2001) e che era imparentata con i nobili di Gondar, l’Etiopia fu controllata da Iyyasu, nominato erede dallo stesso Menelik. Il periodo del suo impero fu tuttavia breve; anche se, de facto, assunse il potere già nel 1911, egli era inviso a molti e fu deposto, nel 1916, dal patriarca della Chiesa etiope che lo scomunicò per apostasia (pare, infatti, che si fosse convertito all’Islam). Al suo posto, assunse il potere Zawditu, la figlia di Menelik II. Gli anni dell’imperatrice furono caratterizzati soprattutto dalla contrapposizione con il ras Tafari Makonnen, designato fin dal 1916 come erede al trono imperiale, la cui spinta modernizzatrice si scontrò con il tradizionalismo di Zawditu.

[1] La denominazione Eritrea fu scelta da Ferdinando Martini riprendendo il nome greco e latino del Mar Rosso, per certi aspetti rispecchiava l’identità di un popolo che nella versione locale era chiamato bahri, ovvero “gente del mare”. Tale denominazione era comunque il prodotto di un’operazione coloniale; eppure, dice Calchi Novati, «è rimasta nella terminologia e nello spirito dei nazionalisti eritrei, che l’hanno legittimata a tutti gli effetti preservandola intatta fino all’indipendenza del territorio corrispondente» (Calchi Novati, 1994).

[2] Le conseguenze della battaglia risuonarono ben al di là dei confini dell’Italia e dell’Etiopia, scuotendo le colonie africane e le potenze europee; secondo Zewde, “il peso simbolico della vittoria di Adua fu più grande nelle aree dove la dominazione bianca sui neri era più estrema e caratterizzata da evidente razzismo, come l’Africa meridionale e gli Stati Uniti” (Zewde, 2001).