Verso un processo di democratizzazione
Con la caduta del Derg, si aprì per l’Etiopia e per l’Eritrea una lunga fase di stabilità politica, in cui il potere rimase nelle mani delle forze che avevano animato la liberazione nazionale.
In Etiopia, l’EPRDF assunse il controllo sotto la direzione di Meles Zenawi che venne eletto, nel 1995, Primo Ministro della Repubblica Federale d’Etiopia. Zenawi inaugurò una “democrazia etnicista” (Calchi Novati, 1994), scardinando l’idea di uno Stato etiope unitario e centralizzato che predominava dall’Ottocento, a vantaggio di un sistema fondato sul decentramento. D’altra parte, nel corso della rivolta armata contro il Derg, erano emersi diversi poteri con base locale (tra cui lo stesso TPLF, l’Oromo Liberation Front e così via) che non potevano essere trascurati (Kidane M., 1997). Vennero riconosciuti i diritti all’autodeterminazione, all’autogoverno, all’autonomia culturale e alla secessione di tutti i popoli. Il sistema di governo fu basato su un’organizzazione federale, costituita da undici Stati Regionali (kililoch, sing. kilil) definiti su base etnica e cioè Afar, Amhara, Binishangul/Gumaz, Gambela, Harari, Oromia, Somali, Southern Nations, Nationalities, and People Region (SNNPR), Tigray e le due città a statuto speciale di Addis Abeba e Dire Dawa. Le Regioni sono state divise in zonal, a loro volta suddivise in wereda (indicate spesso con l’inglese districts) e kebelle, che corrispondono al vicinato.
Con la Costituzione del 1994 si dette vita ad una Repubblica parlamentare federale, in cui il potere esecutivo è nelle mani del capo del governo (il Primo Ministro), il potere legislativo federale è esercitato da un parlamento bicamerale e il potere giudiziario è riconosciuto come indipendente.
Nonostante le molte riforme apportate, secondo alcuni osservatori[1] il processo di decentralizzazione e di democratizzazione sono stati fallimentari. Questo per due ordini di motivi: da una parte, continuavano le ingerenze del governo di Addis Abeba nelle questioni regionali; dall’altra, c’erano forti tensioni tra le diverse unità locali. Ben presto si manifestarono le prime volontà secessioniste e indipendentiste che vennero subito represse, mettendo in discussione le libertà e l’inalienabilità dei diritti umani proclamati dal nuovo governo dopo la caduta del regime militare. Di fatto, le libertà e i diritti umani e democratici, come quello di voto, sono negati alla maggior parte degli etiopi, tanto che l’Economist Intelligence Unit’s Democracy Index 2008 ha collocato l’Etiopia al 105° posto su 156 paesi, tra i cosiddetti “regimi ibridi”, a metà strada tra le “democrazie incrinate” e i “regimi autoritari” (Economist Intelligence Unit 2008).
Per quanto riguarda l’Eritrea, invece, la sua indipendenza fu proclamata nel 1993 attraverso un referendum popolare. Tra il governo etiope di Meles Zenawi e quello eritreo di Issaias Afwerki iniziò un periodo pacifico di scambi e di collaborazione che, tuttavia, mostrò il suo carattere instabile ed effimero nel 1998, quando una sanguinosa guerra scosse di nuovo gli equilibri locali e fece precipitare le popolazioni eritree e tigrine in una nuova spirale di violenza e conflittualità, che aggravò le tragiche condizioni in cui versavano entrambi i Paesi.
La cessazione delle ostilità è avvenuta nel 2000 con la firma di un accordo ad Algeri e ha previsto la definizione di un’area di “sicurezza temporanea” di venticinque chilometri, lo stabilimento della missione di peacekeeping UNMEE (United Nation Mission in Ethiopia and Eritrea) e la nomina di una Commissione Indipendente con l’incarico di tracciare il confine ufficiale. La risoluzione della Commissione, però, non si è tradotta in un accordo, a causa della radicalizzazione dei due Paesi nelle loro posizioni; in particolare, l’Etiopia ha, in un primo momento, rifiutato quei confini, poi riconosciuti “in linea di principio”, mentre l’Eritrea ha mostrato un atteggiamento poco collaborativo, e in alcuni casi di aperta opposizione, nei confronti delle forze di pace. I due paesi sono stati più volte sull’orlo del conflitto e gli osservatori internazionali hanno atteso con particolare apprensione il momento del ritiro della missione dei peacekeepers; in realtà, il ritiro, avvenuto nell’estate del 2008, non ha avuto le conseguenze temute. Tuttavia, la forte instabilità politica e i numerosi conflitti bellici cui il Paese ha dato vita ed ha subito, oltre a ripercuotersi in una detrazione dei diritti umani fondamentali, è la causa di molte criticità economiche, sanitarie, educative che restano tuttora insolute. Come vedremo meglio nel corso dei capitoli in cui si dipana l’analisi del mio tema di ricerca, gli indici di povertà, di sottosviluppo, di carenza di strutture sanitarie e di servizi sociali ed educativi hanno un peso fondamentale nel determinare l’incorporazione di alcune forme di sofferenza, come quella della fistola ostetrica, e sono profondamente intrecciati con le vicende storico-politiche del Paese.
[1] Si veda in particolare Kidane Mengisteb (2001) e Tarekegn Adebo (1997).