Dalle origini al medioevo etiope
L’Etiopia vanta una storia plurimillenaria che le ha conferito l’appellativo di “culla dell’umanità”, testimoniata talaltro da ritrovamenti archeologici di ominidi fossili risalenti al pliocene e al pleistocene. Infatti, alcune specie del genere Australopithecus sono state ritrovate in territorio etiope, come Ramidus, lo scheletro di australopiteco ritenuto l’anello di congiunzione tra la scimmia e l’uomo, e Lucy, forse l’ominide più celebre tra quelli appartenenti a questo genere, datato tra i 3,7 e i 2,5 milioni di anni fa (Spedini, 1997).
Accanto ai ritrovamenti archeologici, a convalidare l’antichità antropologica dell’Etiopia ci sono anche le testimonianze scritte. Come sostiene Paola Buzi (2007), i primi riferimenti a questo Paese si riscontrano addirittura nella Bibbia, dove si dice che etiope era la moglie di Mosè e, probabilmente, anche uno dei Re Magi. Tuttavia, come suggerisce Zewde (2001) convenzionalmente la storia dell’Etiopia ha inizio con la visita della regina di Saba, sovrana di origine araba (della Sabea, appunto), a Salomone, Re d’Israele, intorno al I millennio A.C. Nell’antico documento etiope, il Kebra Nagast (letteralmente Gloria dei re), stilato tra il 1314 e il 1322, viene narrata la notte d’amore tra Salomone e Makeda (la regina di Saba) durante la quale fu concepito Menelik I: l’uomo è considerato il capostipite della dinastia etiope e colui che portò l’Arca dell’Alleanza ad Axum, capitale dell’omonimo regno. Questo racconto ha fornito al potere politico etiope un vero e proprio “mito di fondazione” attraverso il quale legittimare la propria posizione politica e religiosa nei secoli. Infatti, come afferma Calchi Novati (1994) questa narrazione “ha permesso alla monarchia di munirsi di radici che affondano nel più lontano passato e di stabilire, ancorché con qualche strappo e molti innesti successivi, una continuità ininterrotta”.
Dunque, le origini del regno di Axum, legate alla regina di Saba e al suo primogenito Menelik I, vengono fatte risalire al X secolo A.C.. Nel tempo, la regione intorno alla città di Axum divenne la potenza egemone dell’Africa orientale[1], la cui influenza culminò intorno al IV-V secolo. A quei tempi, il controllo dell’Impero axumita si estendeva a tutte le regioni a sud dell’Impero romano, dai confini estremi del Sahara a ovest, attraverso il Mar Rosso fino al deserto arabo di Rub al-Khali a est. L’espansione del potere e dell’influenza del regno di Axum vennero rafforzati, dal II-III secolo in avanti, con la costruzione del porto di Adulis (nei pressi dell’odierna Massaua, in Eritrea), che per qualche secolo assicurò all’antico regno etiopico un importante ruolo nei commerci con l’Egitto, con il Mediterraneo e con la penisola arabica.
L’apice del potere axumita venne raggiunto sotto re Ezana (320-342 d.C.), che espanse i confini del regno arrivando a occupare gran parte dell’altopiano a danno delle popolazioni cuscite a sud, dei nomadi beja e del regno nubico di Meroe a nord. In questo periodo, precisamente tra il 320 e il 330, la corte di Axum adottò il Cristianesimo, una mossa che segnò per sempre il destino del paese e che divenne uno dei tratti peculiari dell’identità etiope[2]. A seguito della cristianizzazione, Axum accentuò i legami con i romani d’Oriente, e le due potenze si unirono in funzione antipersiana e antiaraba durante il VI secolo.
Dopo un breve periodo di dominio sullo Yemen, che durò dal 525 al 572, nel VII secolo iniziò per il regno di Axum un periodo di decadenza che terminò solo nel XII secolo. Il regno abbandonò i porti lungo il Mar Rosso e i suoi traffici commerciali furono trasferiti lungo le vie carovaniere dirette verso il Sudan settentrionale.
Quando nel 615 giunsero in Etiopia i primi arabi in fuga dalle persecuzioni delle autorità della Mecca contro Maometto, iniziò per il regno di Axum un lento ma inesorabile declino. Benché Maometto, giunto al potere, avesse dichiarato l’Etiopia un paese amico (salvaguardando il regno dall’espansione islamica), contemporaneamente però il Mar Rosso fu trasformato in un “lago arabo dall’irresistibile carica espansiva impressa dalla nuova religione” (Calchi Novati, 1994). Axum si trovò così privata del suo sbocco al mare e, nello stesso tempo, costretta a combattere contro gli Stati musulmani che cercavano di penetrare dalle zone costiere. In una tale situazione, la mossa strategica dei regnanti fu quella di spostare la capitale, e con essa il cuore politico del paese, verso sud: il Tigray venne abbandonato in favore della regione dello Shoa e della città di Kabar (l’attuale Ankober). Tuttavia, quello che ne risultò fu un allentamento dei rapporti tra Axum e gli altri centri cristiani del Mediterraneo e la frammentazione territoriale in regni, governati di solito da sovrani cristiani di origine tigrina, i ras, costantemente in lotta tra loro e contro le pressioni arabe. Infatti, il periodo storico che va dal VII al XVII secolo è caratterizzato da lotte intestine tra i diversi leader regionali che miravano ad ottenere il potere centrale. L’unità sulla quale il regno di Axum si fondava era ormai un ricordo: la città di Axum fu distrutta dalla regina ebrea di una popolazione agau, Judith. L’Etiopia, nata dall’incontro fra i prodotti culturali della storia di Axum e i popoli dell’interno, mediante la fusione fra un’élite semitizzata e una popolazione hamitica, si distaccò dalle civiltà mediterranee e dalle sue radici arabo-semitiche africanizzandosi sempre di più (Calchi Novati, 1994).
Una parentesi di ripresa si ebbe nel 1100 sotto la dinastia Zagwe, le cui origini erano fatte risalire ad Axum e a Mosè. La capitale politica del nuovo impero divenne Lalibela, nella regione del Lasta, e in questo luogo rifiorì una civiltà cristiana di alto valore politico e culturale, le cui magnificenze si possono tutt’oggi ammirare nelle grandi basiliche megalitiche sotterranee.
Nel 1270 la dinastia Zagwe fu destituita da una stirpe che rivendicava la sua discendenza con i regnanti di Axum e, dunque, con Menelik I. Questo periodo, noto come “restaurazione salomonide”, sancì lo spostamento del potere dal Lasta all’Amhara, più a nord. Il processo fu coronato con la redazione delle cronache reali del Kebra Nagast per celebrare la rinascita della dinastia legittima ed ebbe inizio quello che gli storici definiscono “medioevo etiope” (Calchi Novati, 1994), in cui si sviluppò un sistema di tipo feudale legato al potere del negusa negasta, il Re dei Re. Il primo a governare fu Yekuno Amlak dal 1270 al 1285. In questo periodo s’intensificarono anche i rapporti tra la Chiesa e lo Stato grazie alla concessione di ampi terreni e di privilegi feudali offerti dal negus, in cambio dell’appoggio simbolico e concreto che il clero garantì al potere politico. Le elargizioni di terre e privilegi non riguardarono soltanto il clero, ma anche i comandanti militari e i notabili che costituivano quell’aristocrazia di cui si circondò l’imperatore per amministrare le province che andava conquistando.
Con il sovrano Zara Yakob, che regnò intorno alla metà del Quattrocento, il regno raggiunse una certa stabilità politica attraverso l’accentramento del potere nelle mani del sovrano (processo volto ad arginare la disgregazione feudale) e con l’unificazione della Chiesa ortodossa attraverso il conferimento di una forma scritta e liturgica alle tradizioni religiose.
Anche stavolta, le pressioni provenienti dalla penisola araba e il conseguente aumento della conflittualità provocarono la rottura dell’equilibrio. Come fa notare Calchi Novati (1994), benché l’Etiopia avesse fondato per molto tempo la sua identità e la sua indipendenza sull’unità della Chiesa ortodossa, l’Islam ebbe tuttavia un ruolo centrale nelle vicende storiche del Corno d’Africa, non solo perché i contatti e gli scambi che si svilupparono, in maniera pressoché stabile fin dal VI secolo, influenzarono in profondità il profilo culturale della regione, ma anche perché fu l’antagonista storico degli Stati dell’altopiano. Senza ripercorrere l’intera storia della presenza islamica in Etiopia, è sufficiente dire che, dal Trecento in poi, c’era stato un incremento delle tensioni tra il regno etiope e gli stati musulmani che erano sorti sul Corno d’Africa, legati non tanto a ragioni religiose, quanto alla reticenza di alcuni sultanati a versare i tributi al negus e alla volontà di controllo dei traffici nel golfo di Aden (Zewde, 2001). Le tensioni erano state in qualche modo placate da Zara Yakob, ma riesplosero con una violenza maggiore agli inizi del Cinquecento e furono legate alla figura di Ahmed Ibn Ibrahim, detto Gran, “mancino”: il suo obiettivo non era solo quello di liberarsi dall’oppressione etiope, ma di convertire gli infedeli e di espandere i confini territoriali del suo dominio. Nel giro di pochi anni, il suo esercito, a partire dal sultanato dell’Adal, riuscì a penetrare lo Shoa, l’Amhara, il Lasta, risparmiando solamente il Tigray. Con l’avanzata militare dei musulmani aumentarono anche le conversioni: la società etiope si stava lentamente sgretolando, chiese e monasteri cristiani furono distrutti e opere d’arte scomparvero, procurando al patrimonio religioso e culturale etiope delle gravi perdite. L’impatto devastante di tale invasione costrinse il negus a chiedere aiuto al Portogallo, mentre i musulmani si affidarono ai turchi.
L’intervento dei portoghesi avvenne nel 1541, dopo la morte di Lebna Denghel e l’intronizzazione del nuovo imperatore Galawdewos o Claudio. La superiorità tecnica di uno stato europeo come il Portogallo non riuscì a tenere testa alle truppe nemiche, finché il Gran non fu ucciso quasi accidentalmente da un colpo di fucile portoghese. Dopo la morte del condottiero musulmano l’equilibrio prese lentamente a ristabilirsi e nel 1551 l’imperatore Claudio respinse l’offensiva dell’emiro Nur Ibn Mugiahid. Otto anni più tardi Fatagar fu il terreno della battaglia decisiva: il negus morì sul campo di battaglia e i musulmani considerarono così vendicata la morte del Gran, ma l’emiro non poté sfruttare la vittoria perché fu costretto a rientrare a Harar a causa di una carestia. La conseguenza più diretta di questa lunga guerra fu l’indebolimento di entrambi i contendenti e la creazione di un vuoto nelle zone centrali dell’altopiano che fu colmato dalla popolazione oromo (o galla); gli Oromo, provenienti dall’Etiopia meridionale, si interposero nel corso del secolo tra le terre basse e l’impero, attraverso un processo di emigrazione e, successivamente, di assimilazione alle popolazioni del nord e di conversione al cristianesimo o all’Islam (ormai affermato nella regione). Questa presenza interruppe, inoltre, i contatti dei regni etiopi con i sultanati arabi che si avviarono verso un rapido e inesorabile declino.
Quella degli oromo non fu un’invasione vera e propria, piuttosto un’emigrazione, che portò l’Etiopia a un periodo d’isolamento e di ulteriore africanizzazione. Dal punto di vista militare, l’impero ripristinò la sua superiorità bloccando l’avanzata dei galla con l’imperatore Sarsa Denghel.
Nell’ultimo decennio del XVI secolo, l’impero visse una nuova fase di stabilizzazione, caratterizzata dalla fondazione di una nuova capitale a Gondar nel 1636. Nonostante l’edificazione di castelli e chiese e lo sviluppo di un’importante cultura urbana, i secoli che seguirono furono un periodo politicamente buio della storia dell’Etiopia, caratterizzato da forti autonomie locali, dall’assenza di un potere centrale, da continue contese dinastiche e teologiche, che culminò nella zamana masafent, “età dei giudici” (o dei “principi”), nella metà del Settecento, così definita perché si appellava al versetto del Libro dei Giudici che recita “In quei giorni non vi era re in Israele, ma ciascuno faceva quel che gli pareva giusto”.
Durante questo periodo, che è stato definito come il preludio alla storia moderna dell’Etiopia (Zewde, 2001), il potere centrale s’indebolì fino quasi a sparire, scosso da guerre interne per il potere, in cui la rivendicazione delle glorie del passato s’intrecciava con le aspirazioni moderne.
[1] A testimonianza della sua grandezza, Axum fu il primo Stato africano a battere moneta propria e il luogo in cui si sviluppò la prima civiltà ditata di scrittura dell’Africa sub sahariana.
[2] Benché la cristianizzazione non eliminò del tutto né i riti né i culti ancestrali delle acque, degli alberi, delle pietre o degli idoli, la fede cristiana divenne un tratto saliente dell’identità nazionale dell’Etiopia, nonché il criterio assoluto di legittimità per la dinastia, ancora più vincolante dopo l’espansione dell’Islam nel continente nero.
Calchi Novati e Valsecchi (2005) suggeriscono che proprio grazie alla “sua cristianità l’Etiopia aveva un posto nella coscienza dell’Europa medievale e rinascimentale, se non altro nelle forme sfuggenti del mitico regno del Prete Gianni, una realtà da qualche parte di là del mare oltre le terre dell’Islam, in una regione non precisata fra l’Egitto e l’India”.