Dalle prime diagnosi all’autocura, dalle terapie tradizionali alle cure biomediche: un percorso eterogeneo di risanamento
Superate le reticenze, Abeba espone l’incapacità di controllare l’urina alla madre che a sua volta si confronta con altre figure. Infatti, in casa era ancora presente la TBA che l’aveva aiutata a partorire, la suocera e le donne, parenti e vicine, che l’avevano assistita fino a quel momento. Si crea così uno spazio relazionale dinamico e variegato di saperi e di pratiche, che rispecchia quanto sostiene Benoist (1993) a proposito della scena in cui si cerca di fronteggiare la malattia.
«Intorno al capezzale della persona malata c’è un incontro straordinario di una gamma di personaggi. Si può vedere sicuramente il medico e i suoi assistenti, ma anche la famiglia, qualche lontano parente e – in maniera meno visibile – altre persone che danno il loro aiuto attraverso infusi, erbe e preghiere. In questo stretto spazio gli attori si affollano insieme; essi simbolizzano tutti i corpi di una società; dai poteri ufficiali della scienza agli echi oscuri delle tradizioni magiche, passando attraverso i legami sentimentali, interessi e alleanze che costituiscono il parentado».
È in questo intreccio di figure, di saperi condivisi o specialistici, di pratiche eterogenee (tutte tese al comune obiettivo del ripristino di una condizione socialmente accettabile di salute) che l’evento di malattia viene plasmato al fine di rispondere al senso di angoscia che l’esperienza di malessere e il suo disagio comportano.
Abeba comprende che durante il parto è accaduto qualcosa che ha cambiato la sua situazione; percepisce infatti di essere passata da uno stato di normalità ad uno di “anormalità” che la rende malata e che attiva immediatamente un’urgenza di comprensione.