Dallo sguardo clinico alle costruzioni locali della fistola ostetrica: un percorso di risignificazione

Seguendo la prospettiva biomedica delineata finora, la fistola ostetrica è un’apertura anormale tra la vagina e il sistema genitale-urinario e/o il retto che si forma in seguito al travaglio prolungato ostruito. Esso è causato da una sproporzione della testa del bambino rispetto al bacino della madre o da una sua errata posizione, sulle cui complicanze è impossibile intervenire per la mancanza di un’assistenza medica capillare, dislocata in tutto il territorio etiope, e per credenze culturali “errate” che, secondo gli esperti di cura ufficiali, intrappolerebbero la gente locale nel perseguimento di pratiche preventive o risanatrici dannose per la salute. Se perpetrassimo questo tipo di spiegazione, finiremmo per assumere la differenza culturale come strategia che giustifica i comportamenti locali “errati” quali unici agenti produttori di patologie peculiari, offuscando altre determinanti che hanno origine in assetti sociali inficiati da profonde disuguaglianze, ed elimineremmo la soggettiva esperienza di malessere degli individui.

Infatti, con le categorie del sistema medico occidentale ci troviamo di fronte ad una spiegazione che tiene conto delle dimensioni biofisiche della malattia (disease), senza prendere in esame le concezioni che i pazienti e il loro universo domestico adottano nell’interpretare la propria esperienza di sofferenza (illness), o quando lo fanno, finiscono solo per demonizzare le credenze locali limitandosi ad una analisi superficiale di esse, che ha come unico termine di paragone il modello culturale occidentale. Eppure, la malattia “non può essere ridotta a mera realtà naturale: sono, infatti, specifiche norme culturali a qualificare come problema medico un particolare stato d’essere” (Quaranta, 2006: X). Ogni malattia, dunque, dovrebbe essere considerata come una realtà simbolica, poiché i suoi segni non sono autoreferenziali, ma acquistano una dimensione valoriale solo se investiti da significati socialmente riconoscibili.

L’alterazione del funzionamento e/o della struttura dell’organismo non può essere l’unico fattore che concorre a definire una malattia. Quest’ultima prende forma e assume significato attraverso una serie di modelli esplicativi radicati nel contesto culturale del paziente e della sua famiglia, a loro volta plasmati dalle forze culturali e dagli interessi economici e sociali in gioco (sickness). La malattia, dunque, emerge come un campo di forze in cui si rende manifesto il profondo rapporto fra processi storico-sociali ed esperienza di disagio. Una realtà dinamica che investe i soggetti non solo come destinatari inermi di forze macro sociali, ma soggetti culturali dotati di una propria “agentività” che gli permette di riposizionarsi creativamente all’interno del loro mondo sociale.

Come somma di esperienze personali, simbologie sociali e processi politici (Lock, Scheper-Huges, 1990), la malattia acquista una dimensione olistica, ben lontana dalle concezioni biomediche che prendono in considerazione solo gli aspetti fisiologici della patologia, ignorando le costruzioni culturali radicate nella storia di ciascun gruppo umano e plasmate dalle forze sociali.

Limitare l’analisi della malattia ai processi naturali che governano ogni evento di sofferenza, relegando il suo funzionamento al dominio naturale e considerandolo una pura alterazione dei meccanismi fisiologici dell’organismo, significa convalidare la biomedicina quale modello esplicativo universale. Quest’ultimo, secondo la logica interna che lo sostiene, troverebbe la sua validità unica ed indiscutibile in una presunta naturalizzazione del corpo. Al contrario il corpo non può essere inteso come neutra entità biofisica, ma come un prodotto sociale la cui costruzione influenza a sua volta le concezioni di salute e malattia elaborate da ogni gruppo umano. Dunque, assumere la prospettiva biomedica quale unica concezione valida per definire un particolare stato di malessere, significherebbe limitare la comprensione di quella patologia e di questioni correlate all’evento, precludendosi la possibilità di capire come culture lontane dalla nostra rappresentano i propri assunti sull’eziologia e il corso della malattia. Uno stato di sofferenza, infatti, è un evento complesso che investe diversi attori sociali e differenti livelli di comprensione. Andras Zempléni sostiene che l’origine della malattia è collegata a ciò che “crea un’invasione dei fenomeni comprensibili all’individuo” (Zempléni, 1985, in Roger 1993: 92). Di conseguenza, di fronte allo stato patologico, ogni essere umano ha bisogno di capire perché è successo proprio a lui o a un suo caro e perché in quel particolare momento della sua vita. Questo primo stadio della comprensione, viene poi completato, secondo l’antropologo francese, da altre due fasi d’indagine che concorrono alla ricostruzione dell’origine della malattia: una fase ha a che fare con la ricerca delle cause materiali della patologia e risponde alla domanda “come?”; l’altro momento, invece, è incentrato sull’identificazione dell’agente patologico e viene posto in essere dalla domanda “chi?” o “che cosa?”. Ci troviamo di fronte a quesiti le cui risposte si collocano sul piano sociale, relazionale, esistenziale, culturale e morale, aspetti che il discorso e la pratica biomedica tendono a rimuovere dall’analisi delle storie dei pazienti, che pretendono di curare attraverso il loro sguardo biologizzante. La malattia nella definizione biomedica è dunque uno stato oggettivo, un fatto reale che s’iscrive nel corpo del paziente ma che si definisce solo in base a parametri oggettivi e misurabili dell’indagine clinica, lasciando inosservate le altre componenti soggettive e relazionali che hanno un peso fondamentale nelle ricerca delle cause e di un loro ripristino da parte dei soggetti coinvolti. Infatti, la malattia è sempre una realtà socialmente costruita.

Abanesh, una delle pazienti che ho intervistato al Mekelle Fistula Hospital, parlando del suo problema mi ha detto:

Non capivo che cosa avessi fatto io per stare male. Ero triste e me ne stavo tutto il giorno in casa senza voler vedere nessuno” E prosegue: “poi la mia famiglia e i miei vicini mi hanno detto che ero stata colpita dal malocchio e mi hanno portato da un guaritore.

Ad un primo senso di spaesamento e di impotenza per l’incredulità e l’incomprensione che proprio a lei fosse successo qualcosa che avesse alterato il suo normale stato di salute e dunque la sua quotidianità, segue immediatamente la ricerca del come questa compromissione sia potuta avvenire e chi o che cosa ne fosse stato l’artefice. Grazie all’individuazione dell’agente patologico è poi potuto iniziare il primo passo verso un processo di guarigione.

Da queste parole e rifacendosi al pensiero di Zempleni è possibile notare come ogni evento di malattia interessa aspetti che riguardano sia il piano personale che quello sociale. Queste dimensioni, al contrario, sono completamente ignorate dall’approccio biomedico, il quale propone un punto di vista riduttivo e oggettivo focalizzato sulla dimensione biologica del corpo umano. Tuttavia, escludere il quadro sociale è un grave errore. Marc Augé (1983) ha affermato che in molte culture africane, così come in quella etiope, c’è uno strettissimo rapporto tra malattia ed ordine sociale, perciò spesso l’insorgenza di un determinato stato di sofferenza non rimanda direttamente all’ordine biologico, ma si configura come il segno di uno squilibrio forse ben più grande. Esso affonda le sue radici in un disordine sociale e cosmico, la cui risoluzione passa attraverso il ripristino delle relazioni comunitarie e cosmologiche intaccate. Egli, infatti, afferma:

L’ipotesi è che la stessa logica intellettuale controlla l’ordine biologico e l’ordine sociale; che in un certo qual modo, in una data società, una singola struttura interpretativa del mondo risponde tanto al corpo individuale che alle istituzioni sociali. Se c’è una logica, è da questa che la costituzione del corpo e dell’istituzione della società, l’uno e l’altro, procedono simultaneamente.

Da queste premesse risulta chiaro che se vogliamo comprendere come viene percepita e vissuta una particolare malattia e come essa si iscrive nei corpi, dobbiamo innanzitutto tenere presenti le categorie sociali e storiche che caratterizzano un determinato assetto culturale. Bisogna, in poche parole, restituire alla malattia la pienezza multidimensionale di una complessità insieme esistenziale, sociale e culturale. Lo studio di questo intreccio di aspetti ci permetterà poi di compiere un successivo passo in avanti, che è l’obiettivo di questa tesi: analizzare la violenza iscritta nei significati culturali stessi e negli assetti sociali che essi legittimano e perpetrano, così come emerge dai vissuti esperienziali dei soggetti che incorporano queste dinamiche socio-culturali e politiche. Emergerà, allora, un quadro esistenziale in cui tali forze macrosociali si configurano come le principali cause nel limitare la capacità d’azione di specifici gruppi di persone, che vengono relegate ai margini di una società profondamente ineguale. Infatti, il quadro teorico in cui ho collocato ed analizzato la fistola ostetrica è quello della violenza strutturale, un concetto che il filosofo Jhoan Galtung (1969) ha definito come “quella particolare forma di violenza che non richiede l’azione di un soggetto per essere compiuta, nella misura in cui a caratterizzarla è la sua natura processuale e indiretta” (cit. in Quaranta, 2006:XXIII). Questo concetto è stato ripreso e fatto proprio dall’antropologia critica della salute che vede in Paul Farmer uno dei suoi maggiori esponenti, i cui lavori sono tesi a evidenziare gli effetti provocati da determinati rapporti sociali, che trovano la loro ragion d’essere nelle strutture simboliche e comunitarie che li sottendono e li riproducono e nelle politiche economiche che investono la globalità del pianeta, con effetti a livello locale spesso devastanti.

La riproduzione delle strutture valoriali e sociali su cui si regge una comunità è un processo che viene messo in pratica da ogni gruppo umano, ma a beneficiare di questa perpetrazione non è la società intera, bensì solo una parte di essa. Quella parte che ha il potere di partecipare ai processi di costruzione del sapere e delle pratiche sociali, della visione comune dell’ordine simbolico, della ridistribuzione delle risorse economiche e che attraverso di esse può produrre e naturalizzare l’oppressione, la disuguaglianza e la marginalizzazione, che è quanto subiscono tutte le vittime di fistola ostetrica. Le loro condizioni non possono essere interpretate come sfortunati casi d’imprevedibili conseguenze da parto, ma la materializzazione corporea della concezione e del ruolo della donna all’interno di un preciso universo valoriale di riferimento e di un determinato assetto economico che crea, per certi gruppi di persone, uno sconvolgente stato di “inopportunità” alle risorse materiali basilari. Questo intreccio di aspetti culturali locali e politiche macroeconomiche pone queste donne in una condizione di subordinazione rispetto a determinate strategie di controllo e di riproduzione del tessuto sociale e le priva della capacità di negoziare i termini della propria esistenza. Perciò la malattia, nel nostro caso la fistola ostetrica, marchia questi corpi e li trasforma in simboli in cui si rispecchiano i rapporti di dominio e asimmetria delle relazioni di genere proprie di ogni società e ad un livello sotto strutturale, riflettono l’incorporazione di condizioni esistenziali di indigenza materiale al di fuori di ogni parametro minimo di dignità umana.