Definizione del concetto di genere
Il genere viene inteso come “un insieme di attributi, caratteristiche psico-attitudinali e comportamenti che si ritengono adeguati ad un uomo o ad una donna, e prima ancora ad un bambino e ad una bambina, esseri sociali”. L’essere uomo o donna in un determinato contesto storico-culturale non è sicuramente una questione biologica riconducibile alla diversa conformazione degli organi sessuali, dalla quale dipenderebbero le caratteristiche mentali, psicologiche e di condotta che gli esseri umani presentano nelle diverse società, come una visione naturalistica dell’ordine delle cose vorrebbe farci credere[1]. La concezione naturalistica del sesso propria della nostra società così come di altri ordinamenti culturali, poggia su un unico elemento fondamentale: la riproduzione degli esseri umani; in termini concreti sul fatto che le donne partoriscono e gli uomini no.
In diverse società sesso biologico e senso della propria esistenza personale e sociale non sempre hanno un rapporto necessitante. “L’identità maschile e femminile sono complesse costruzioni sociali e culturali. Il sesso viene considerato come un sistema simbolico i cui significati variano al variare dei contesti storico-culturali e delle formazioni sociali di riferimento” (Ortner, Whitehead, 2000).
Ascrivere i comportamenti delle persone, la percezione e l’idea che si ha di sé alla biologia significa demistificare non solo le relazioni specifiche, di potere e di subordinazione, tra uomini e donne, ma anche i modi in cui quei rapporti si sono costituiti, impregnando strutture, istituzioni, pratiche di vita, rituali e ogni altro aspetto del vivere sociale. Nel nostro caso significa anche occultare una specifica ideologia e particolari condizioni strutturali che portano all’incorporazione del malessere.
La numerosa letteratura antropologica, concernente la costruzione dei ruoli sociali e delle caratteristiche definite di volta in volta come “maschili” o come “femminili”, ci dimostra che il sesso non determina il genere. Femminilità e maschilità, allora, non possono più essere visti come caratteri innati, esplicitati e condizionati dall’apparato anatomico, ma sono da considerarsi come caratteristiche apprese, un insieme di disposizioni e di costrutti concettuali che in ogni società e in ogni epoca si ritiene adeguato a uomini e donne. L’innatismo è sinonimo di esclusività, per cui ciò che è mio non può essere anche tuo, ma basta un confronto tra culture diverse all’interno dello stesso ambito, per rendersi conto che ciò che viene considerato esclusivo in una determinata società è del tutto relativo per un’altra, dal momento che ciò che si presume avere un carattere esclusivo è invece il frutto di una negoziazione che ha luogo all’interno di un universo rituale-simbolico del tutto specifico. Dunque a farla da padrone nella definizione del genere non è la biologia, bensì la cultura poiché anche il sesso biologicamente inteso è in realtà il prodotto di uno specifico assetto culturale.
È stato merito della categoria analitica del genere di aver sottratto il sesso ad un’analisi determinista ed essenzialista che fino ad allora lo aveva caratterizzato, considerando il sesso come una dimensione umana ancorata alla biologia. È solo in virtù della nozione di genere, infatti, che si è potuto rimettere in questione il concetto di sesso: perché con genere si è rivendicato “un territorio per il sociale”, cioè “un luogo concettuale diverso da quello di sesso”, per “potere, da questa posizione strategica, interrogare questa accezione tradizionale” (Delphy, 1991). Come rileva, a tal proposito, anche Linda Nicholson “la società non solo forma la personalità e il comportamento, ma influenza anche il modo di vedere il corpo. Ma se il corpo di per sé viene sempre filtrato attraverso un’interpretazione sociale, allora il sesso non è separato dal genere ma è, semmai, qualcosa che fa parte del genere”. Vedremo come questo sia vero quando analizzeremo la manipolazione del corpo, inclusa quella degli attributi sessuali, per definire l’appartenenza di genere.
[1] La prima a mettere in risalto il carattere arbitrario degli attributi maschili e femminili considerati come fatti “naturali” e a dimostrare che essi sono tutt’altro che necessari e universali, fu Margaret Mead. Nel 1935 l’antropologa scriveva: “se quegli elementi di temperamento che noi, per tradizione, consideriamo femminili – come la passività, la sensibilità, la propensione a curarsi dei bambini – possono tanto facilmente, in una tribù, entrare a far parte del carattere maschile, e quello femminile, almeno per quanto riguarda la maggioranza degli uomini e delle donne, viene a mancarci ogni fondamento per giudicarli legati al sesso”.