I preliminari della ricerca: le fonti bibliografiche e le prime ipostesi epistemologiche

Quello della ricerca sul campo è un aspetto fondamentale nell’ambito della disciplina antropologica, è un’esperienza che corona il percorso di studi e cui fin dai primi esami ogni studente aspira e si prepara con impazienza. Ricordo perfettamente il giorno in cui ha preso forma concreta nella mia testa la decisione di andare in Etiopia. È stata una scelta maturata, da un lato, tra la consapevolezza dell’inevitabilità dell’esperienza del campo e la trepidazione di mettere finalmente all’opera quel bagaglio di conoscenze e di pensieri che avevano contribuito, nel tempo, a formarmi come persona, e dall’altro, l’incoscienza con cui ho deciso di partire insieme ad un misto di angoscia e paura per la radicalità del vissuto che mi attendeva. Ne ho parlato con il mio relatore, che ormai da qualche anno ha scelto l’Etiopia, e in particolar modo il Tigray, come suo campo privilegiato di ricerca, e nel definire la mia assoluta convinzione di voler partire per questa terra è emersa una tematica di indagine che mi ha subito molto colpito. Mi disse che in quella regione, così come in molti altri paesi in via di sviluppo, le donne soffrono di una malattia chiamata fistola vaginale. Non ne avevo mai sentito parlare prima, però mi affascinava il fatto di potermi occupare di un problema che investe radicalmente il vissuto di una donna, sia da un punto di vista fisico, sia psicologico, nonché sociale. È da questo colloquio piuttosto informale e dalla mia ignoranza sul tema, unita, tuttavia, ad un forte desiderio di saperne di più che ha avuto inizio la mia ricerca.

Infatti, una ricerca non comincia mai direttamente sul campo; c’è sempre un periodo preliminare che è parte integrante del progetto di indagine stesso, il quale anticipa e prepara il momento dell’esperienza del campo inteso in senso tradizionale. Innanzitutto bisogna andare nelle biblioteche e negli archivi per esaminare tutta la letteratura pubblicata in precedenza, sia relativa al contesto storico-culturale del luogo dove condurremo la nostra indagine (soprattutto se si tratta di un ambiente altro rispetto a quello in cui abitualmente il ricercatore studia e vive la propria quotidianità), sia più specificatamente riguardante il fenomeno culturale su cui verterà la ricerca.

La documentazione preliminare può costituire un’arma a doppio taglio. Da un lato ci aiuta ad inquadrare gli aspetti che caratterizzano l’oggetto della nostra attenzione entro un orizzonte conoscitivo che rispecchia la dimensione valoriale di cui è costituito e ci permette di attutire l’inevitabile angoscia per questa “curvatura dell’esperienza”, come la chiama Piasere. Dall’altro, ineluttabilmente, porta alla formazione di tutta una serie di pre-concetti e di aspettative che sono altrettanto rassicuranti quanto una presunta familiarità con l’oggetto d’indagine acquisita grazie agli scritti precedenti, ma che costituiscono anche una tra le difficoltà e gli equivoci cui l’antropologo va spesso incontro sul campo; equivoci che tuttavia possono aiutare a riformulare i termini della questione sotto altri punti di vista. Anche a me è successo di cadere vittima di alcuni preconcetti e di aspettative disattese. Ricordo molto bene l’intervista avuta con il direttore del Fistula Hospital di Addisa Abeba, il dottor Gordon Williams, quando ormai la mia ricerca si trovava già a metà strada e avevo inquadrato il problema della fistola ostetrica all’interno di una costumanza molto diffusa in Etiopia: l’early marriage. Questa pratica caratterizza soprattutto le zone rurali, da dove provenivano la quasi totalità delle vittime di questa malattia, e nell’opinione comune, così come nella comunità scientifica, si è affermata quale causa prima dell’insorgere della fistola vaginale dopo il parto, poiché si crede che la donna, sposandosi e partorendo in un’età in cui il suo sviluppo fisico non ha pienamente raggiunto la maturità biologica, è più soggetta a complicanze di questo tipo. Vista la pervasività di questa credenza, mi aspettavo di ritrovare replicate nelle spiegazioni che del fenomeno mi stava dando il direttore, gli stessi temi che fino ad allora erano emersi nelle motivazioni degli altri miei informatori. E più io insistevo sul tema del matrimonio precoce, più Gordon Williams lo metteva da parte in favore di altri elementi strutturanti la società etiope, quali la povertà e la malnutrizione. Inizialmente è stato irritante ed anche frustrante non vedere confermate le mie posizioni, ma nel rielaborare i dati che avevo raccolto durante quell’incontro è emersa una pista nuova che ha illuminato il prosieguo della mia ricerca e che ora costituisce il filo rosso che tiene uniti gli elementi emersi durante il campo: la violenza strutturale coniugata secondo una prospettiva di gender.

Per tornare agli aspetti preliminari, com’è nella tradizione di ogni buona ricerca antropologica, il primo passo del mio lavoro è stato quello di recuperare tutto il materiale bibliografico relativo alla fistola ostetrica e inaspettatamente ho constatato che nessun antropologo aveva mai preso in considerazione questa tematica. La scoperta mi ha lasciato molto sorpresa, forse perché ingenuamente ho sempre considerato l’antropologia una scienza che, per il suo definirsi umanistica, si insinua e cerca di far luce su ogni aspetto dell’esperienza umana. Invece, la fistola da parto è rimasta confinata all’attenzione medica e il poco materiale che sono riuscita a recuperare è limitato a qualche articolo pubblicato sull’International Journal of Gynecology and Obstetric.

Dimenticanza? Questione scarsamente interessante da un punto di vista antropologico? Escluderei entrambe le ipotesi, poiché l’universo femminile, sia nelle sue pratiche corporee che nelle sue dinamiche relazionali e nei suoi stati di malessere e benessere è stato e continua ad essere uno degli ambiti di riflessione della ricerca antropologica. Né è testimonianza, ad esempio, la sterminata letteratura sulle mutilazioni genitali femminili. Ci troviamo in entrambi i casi, tanto nelle mutilazioni che nella fistola vaginale, in presenza di un corpo violato (anche se con due accezioni molto diverse che più avanti cercherò di mettere in luce), eppure solo nel primo caso l’argomento è stato oggetto di un forte interesse da parte di tutta la comunità scientifica, mentre nel caso della fistola ostetrica a predominare è il silenzio. Come se intorno alla malattia ci sia un alone di inenarrabilità che effettivamente ha reso molto difficile anche la mia ricerca.

A proposito della mancanza di documentazione antropologica mi sento di avanzare alcune ipotesi di cui nessuna esclude l’altra, anzi tutte potrebbero concorrere a giustificare la fistola ostetrica quale “campo di forze” ancora inesplorato.

La prima è interna all’antropologia stessa e ha a che fare con il fatto che, fin dall’inizio, l’interesse di questa disciplina è stato rivolto principalmente ai contesti post coloniali. All’Etiopia, vista la sua storia, calza male l’appellativo di colonia. Infatti, la presenza italiana nelle terre del negus durò solo cinque anni e fu poco più di un’occupazione militare, e al di fuori delle città e delle grandi vie di comunicazione il controllo del territorio fu sempre precario. Questo ha fatto sì che l’Etiopia fosse meno contaminata dalla cultura europea e mantenesse una sua forte connotazione identitaria; il suo percorso storico pertanto, la rende un campo di ricerca antropologica giovane.

Inoltre, fin dal suo costituirsi, l’antropologia medica si è interessata principalmente allo studio delle medicine tradizionali e al rapporto tra queste e la biomedicina, considerata come termine indiscutibile di paragone per studiare e convalidare (ma molto più spesso invalidare) tutte le altre forme di gestione dello stato di salute e di malattia. Questa relazione è stata turbolenta fin dall’epoca coloniale, quando il diffondersi della medicina occidentale all’interno dei territori conquistati, e il conseguente discredito delle pratiche terapeutiche tradizionali e dei suoi detentori, fu una strategia di controllo sui corpi e, quindi, un disegno di assoggettamento politico ed economico da parte dell’autorità coloniali sulle terre che man mano entravano sotto la loro giurisdizione.

Da quanto è emerso dalle mie interviste, la fistola ostetrica, non sembra trovare posto all’interno della nosologia e dell’eziologia etiope tradizionale. La mancanza di una classificazione autoctona ci potrebbe far pensare a questa condizione come ad una “malattia della vergogna”, un disordine, sia morale sia fisico, che deve essere tenuto nascosto a occhi esterni. Ma può anche darsi che la fistola da parto, in quanto categoria nosologica, sia un prodotto della biomedicina e pertanto il modello biomedico di spiegazione di questo problema sia intraducibile non soltanto nella nosologia locale, ma anche nel più ampio modello esplicativo del sistema medico etiope. Questo perché a formare un sistema medico concorre tutto l’universo fisico (geografico), storico e valoriale del popolo cui il sistema medico appartiene, universo che in questo caso differisce molto tra quello che sottende il mondo etiope e quello che ha portato alla formazione del sistema biomedico e alle sue categorie diagnostiche. Ecco allora, lo stupore e l’inconsapevolezza che leggevo spesso nei volti delle persone che intervistavo nel sentir parlare del loro problema con un appellativo, quello di fistola vaginale, che non solo non rientrava nel loro idioma, ma non veniva nemmeno riempito dei significati e delle spiegazioni di cui lo nutre la medicina occidentale. Non posso fare a meno di chiedermi a questo punto se la biomedicina, a partire da un’evidenza fattuale, non abbia inventato una nuova malattia locale con tutto il corredo di significati che ogni stato alterato di salute inevitabilmente comporta. Questa spiegazione è una delle piste che hanno influenzato la mia ricerca e un nodo che cercherò di sciogliere nei capitoli successivi.

Un’altra ipotesi che si potrebbe avanzare per giustificare il silenzio antropologico intorno a questo problema è che le donne aventi la fistola vaginale si trovano in una condizione di totale emarginazione sociale, in quanto la malattia va a destrutturare l’identità femminile stessa, privando le malate dei loro ruoli sociali all’interno della comunità d’appartenenza. È la comunità stessa che, non riconoscendo più a queste donne la loro funzione sociale di mogli e di madri, le pone ai margini. Questa sorta di censura ha reso il problema ancora meno accessibile allo sguardo antropologico.

Quello che cercherò di mettere in risalto in questa tesi è l’idea che malattia, emarginazione e silenzio letterario siano legati da un unico filo rosso costituito da quella che Paul Farmer (2003) definisce “violenza strutturale”, insita all’interno della società: sono gli stessi ordinamenti sociali, caratterizzati da profonde disuguaglianze a concorrere all’insorgenza della malattia, la quale a sua volta rende ancora più forti le disuguaglianze stesse, impedendo alle donne di ricoprire i loro ruoli. In questo scenario, il potere salvifico e omnicomprensivo che l’ottica occidentale attribuisce sempre alla biomedicina, con tutto il suo corredo di pratiche e di modelli esplicativi non riesce a salvare la situazione.