Il campo di ricerca
Il mio lavoro di ricerca è stato svolto per un tempo consecutivo di circa cinque mesi principalmente nella regione etiope del Tigray[1], la terra più a nord al confine con l’Eritrea. Il mio campo di ricerca è stato soprattutto la città di Mekelle[2], la capitale del Tigray. Lì, insieme ad altre quattro ricercatrici che come me facevano parte della stessa missione di ricerca, organizzata e guidata dal Professore Giuseppe Domenico Schirripa, dell’Università “La Sapienza” di Roma, abbiamo affittato una casa. Questa per tutti i mesi di permanenza ha costituito il nostro “laboratorio creativo”, il nostro ufficio, dove poter far lavorare gli interpreti, e il nostro rifugio psicologico dove “ripararsi” da occhi spesso difficili da sostenerne lo sguardo, dopo una giornata trascorsa fuori a raccogliere dati e ad impregnarsi di quell’umanità a volte distante ed incomprensibile. Un rifugio dove fare i conti con quella solitudine estrema, a tratti dilaniante, che il campo di ricerca riesce a farti provare con una forza dirompente fino a trascendere nella nostalgia più acuta per la tua vecchia quotidianità, per le tue piccole certezze, per gli affetti scontati e per quell’intimità culturale di cui, sul campo, non riesci a trovarne neanche il più piccolo angolo di condivisione. Infatti, il campo implica uno sradicamento esperienziale dalla vita quotidiana e questo crea angoscia.
L’etnografo si stacca da un ambiente e dalla sua rete personale di interazione quotidiana, per andare in un altro ambiente in cui costruire una nuova rete personale di interazione quotidiana[…]. Come i corpi nello spazio-tempo si attraggono, così le persone nello spazio tempo sociale si attraggono, instaurano legami, costruiscono co-esperienze. Per Einstein, come è noto, l’attrazione di corpi è in realtà una curvatura dello spazio-tempo. La mia metafora della curvatura dell’esperienza deriva da qui: l’etnografo “curva” il proprio spazio tempo, la propria vita, per andare a co-costruire esperienze con persone che non fanno parte della sua giornata normale.[3]
Con il passare dei giorni, delle settimane, la curvatura dell’esperienza diventa più gestibile. Grazie anche alle nostre capacità mnemoniche che vanno sotto il nome di “associazione” e di “stabilità approssimativa” siamo in grado di adattarci psichicamente all’ambiente; in caso contrario l’etnografo o abbandona il campo o ne rimane vittima, com’è avvenuto all’antropologo e romanziere andino del Perù José Maria Arguedas[4]. Tuttavia, quest’ultima è un’esperienza estrema ed isolata, che si inserisce in un contesto storico-sociale particolare: quello della cultura del Perù da secoli in lotta con la cultura spagnola, con tutte le lacerazioni e le contraddizioni che impregnano in maniera forte le storie di vita di chi vive questi incontri/scontri e rimescolamenti.
Man mano che ci impregniamo, che passiamo dall’osservazione alla partecipazione sfuma quel “mondo terzo” di cui parla Fabietti (1999): i volti si fanno familiari, persone prima estranee diventano i tuoi vicini, atteggiamenti e modi di fare in un primo tempo incomprensibili entrano a far parte di una gestualità condivisa, le regole di buona maniera non devono più essere negoziate. Ti abitui a sentirti chiamare “forengi” che nella lingua locale tigrina significa bianco, e anche tu inizi a ragionare sul colore della tua pelle come mai avevi fatto prima, percependone le simbologie e i diversi rapporti di forza. Gli atteggiamenti goffi delle prime settimane lasciano il posto a movenze disinvolte. Le strade, che a Makelle sono nella maggioranza dei casi senza nome, non sono più tutte uguali e ritrovare la via di casa o il pulmino che ti ci porta non è più un’impresa così impossibile. Impari a contrattare il prezzo del bajaji prima di salirci per non ritrovarti a pagare una cifra dieci volte superiore rispetto alla persona locale che l’ha condiviso insieme a te. Alla fine, anche per i locali tu, in veste di straniero e di ricercatore, non sei più così “visibile” e dissonante come all’inizio.
Oltre alla città di Mekelle, le mie ricerche hanno interessato anche alcuni piccoli villaggi intorno alla capitale tigrina come Adigudum, Agula e Debrì, in aggiunta a due settimane di ricerca presso il Fistula Hospital di Addis Abeba, essendomi trovata nella capitale abissina per rinnovare il permesso di soggiorno prima della scadenza dei tre mesi consentiti.
Dovendo ricostruire il vissuto personale delle donne malate di fistola, la loro percezione della malattia, delle sue cause, i percorsi terapeutici che hanno intrapreso sia all’interno del sistema medico tradizionale che in quello biomedico, gli incontri, le interviste, o anche solo i colloqui informali si sono svolti essenzialmente nel Fistula Hospital di Mekelle, una della quattro “arterie” di quello principale di Addis Abeba. Sarebbe stato interessante poter entrare in contatto con donne aventi la fistola vaginale non ancora “ospedalizzate”: colte nell’ambiente domestico e immerse nel loro universo simbolico e valoriale ancora non contaminato dal sistema di valori e di spiegazioni che suggerisce la biomedicina. Avrei così potuto operare un confronto tra le diverse prospettive e vedere se e come cambia l’idea di malattia, la percezione di se stesse come donne, mogli e madri, e la percezione del loro corpo. Purtroppo questo non mi è stato possibile. La fistola ostetrica, infatti, è un problema che la società e le donne che ne sono colpite tendono a censurare ad occhi esterni all’ambiente familiare. Molte delle vittime mi hanno detto che in principio non ne hanno parlato neanche con i genitori o con il marito, anche se questo occultamento risulta piuttosto arduo da attuare, dal momento che la fistola è connotata da segni (uno fra tutti l’incontinenza) difficilmente celabili nell’ambiente intimo. L’atteggiamento di censura, che fa apparire la fistola vaginale come una “malattia della vergogna”, rende difficile entrare in contatto con le sue vittime o con il loro ambiente familiare, dal momento che quest’ultimo ne è vittima o causa, a seconda delle spiegazioni, quanto la donna che ne porta esplicitamente i segni sul corpo. Nessuno ne parla: ci sono molti rumors riguardanti questo problema, che ho cercato di raccogliere anche durante le conversazioni informali e nei momenti occasionali; tutti sanno che esiste anche se le cause e la percezione della malattia varia da uno strato sociale all’altro. Eppure alla domanda “c’è o c’è stato nella tua famiglia un caso di vittima di fistola vaginale?”, o “hai mai sentito parlare di qualche donna malata di fistola vaginale?” come per magia il problema sparisce. Nessuno conosce nessuno, nessuno ne ha mai sentito parlare dai diretti interessati.
Non mi sono limitata al reperimento di dati e al contatto con le vittime, ma ho cercato di avvicinarmi a tutto l’universo che ruota intorno a questa debilitante malattia. La ricerca mi ha portato ad entrare in contatto con quelle figure che, prime fra tutte, hanno una certa familiarità con il problema e ne sono le testimoni oculari privilegiate: le Traditional Birth Attendants (TBAs). Queste levatrici tradizionali aiutano la donna nel parto e sono le depositarie del sapere locale sul funzionamento dell’apparato riproduttivo femminile e delle sue disfunzioni e dei rimedi tradizionali per ripristinare il giusto equilibrio corporeo. Ho frequentato le case di molte TBAs e con alcune di loro si è instaurato un rapporto di rispetto, di complicità e di amicizia che andava al di là del semplice reperimento di informazioni. Più volte sono ritornata da loro per una semplice “visita di piacere”, per assicurarmi che stessero bene e per bere insieme il delizioso caffè locale, che in Etiopia non è mai una pausa di cinque minuti ma implica il dispiegarsi di una cerimonia vera e propria.
Nel cercare di ricostruire i percorsi terapeutici intrapresi dalle donne affette da fistola ostetrica, ho frequentato anche gli ambulatori di alcuni guaritori tradizionali e le strutture sanitarie dove opera il personale biomedico, potendo così metterne a confronto le diverse interpretazioni di salute e malattia, la diversa concezione del problema fistola e i differenti rimedi curativi.
I miei interessi di ricerca mi hanno portato ad allacciare contatti con alcune associazioni nazionali e internazionali che hanno a cuore l’universo femminile e portano avanti da tempo faticose politiche per il miglioramento della condizione della donna tout court nei paesi del terzo mondo, in particolar modo la Women’s association e Path finder.
Quindi il mio campo di ricerca è stata l’intera società di Mekelle. I luoghi degli incontri non sono stati solo quelli istituzionali dell’ospedale, dell’ambulatorio dei guaritori tradizionali, delle case delle TBAs, ma anche le strade, i coffee shops, gli autobus locali, i bajaji, le piazze, le chiese, i piccoli negozietti di lamiere che vendono un po’ di tutto: dai fiammiferi alle lenticchie, dalle penne al pane. Insomma, il mio campo di ricerca è stato ogni luogo in cui poter osservare ed essere osservata, ogni posto in cui entrava in gioco quella che lo psicoanalista Devereux chiama “attenzione fluttuante” o “distrazione recettiva” che consiste nell’ascoltare qualcuno senza troppa attenzione, lasciando divagare il pensiero (1984, pag.504).
Se finora è stato facile illustrare il contesto entro il quale mi sono mossa, più difficile sarà spiegare cosa significa fare ricerca sul campo e come si connota quest’esperienza. Fin dalla sua monografia edificante, “Argonauti del Pacifico occidentale” di Malinowski, la ricerca sul campo è stata subito paragonata all’esperimento delle scienze della natura.
Scriveva Malinowski nel 1922:
Nessuno si sognerebbe mai di dare un contributo sperimentale alla fisica o alla chimica senza fornire un resoconto dettagliato di tutti i preparativi degli esperimenti e una descrizione esatta degli strumenti adoperati, del modo in cui le osservazioni sono state condotte, del loro numero, della quantità di tempo ad essa dedicata e del grado di approssimazione con cui è stata eseguita ciascuna misurazione. In altre scienze meno esatte, come la biologia o la geologia, questo non si può fare con lo stesso rigore, ma ogni studioso farà del suo meglio per rendere comprensibili al lettore tutte le condizioni in cui l’esperimento o le osservazioni sono state compiute. In etnografia, dove è forse anche più necessaria, un’esposizione senza pregiudizi di tali dati non è mai stata fornita in passato con sufficiente generosità e molti autori non illuminano con piena sincerità metodologica i fatti in mezzo ai quali si muovono, ma ce li presentano piuttosto come se li tirassero fuori dal cappello del prestigiatore.[5]
Da Malinowski in poi, nella scuola boasiana fino alla scuola francese d’ispirazione levistraussiana, l’equazione terreno di ricerca = laboratorio è stata ampiamente sostenuta. È vero che sul campo si fanno esperimenti, nel senso che si formulano ipotesi, se ne controlla la veridicità o i limiti, si creano e ri-orientano prospettive nel procedere dell’interazione umana, si fanno quelli che Mach definisce “esperimenti mentali” (si figurano delle circostanze, e a queste rappresentazioni vengono connesse l’aspettativa, la previsione di certe conseguenze), ma soprattutto, come sostiene Piasere (2002), si fa un particolare esperimento: un esperimento di esperienza.[6]
In qualità di esperimento (di esperienza) la ricerca sul campo, che conduce all’altro correlato esperimento della scrittura di una monografia etnografica (tenendo presente che i due momenti si auto costruiscono circolarmente), ha i suoi strumenti. Questi ultimi sono principalmente strumenti che implicano l’uso della scrittura, una scrittura preliminare, fugace a volte evanescente, ma pur sempre strumenti scritti che servono a dar rigore e validità scientifica al lavoro dell’etnografo, poiché rispecchiano una metodologia disciplinare consolidata e ritenuta valida per l’indagine etnografica. Infatti:
Il mistero circa il modo in cui un’esperienza etnografica – un’esperienza di per sé frammentaria, quasi sempre solitaria e anche un po’ eccentrica – finisce per risultare nei testi antropologici come qualcosa di compiuto e di “scientifico”, può spiegarsi solo con il fatto che gli antropologi, quando scrivono i loro resoconti, lo fanno rispettando determinate procedure riconosciute come “corrette”. Per poter essere riconosciute scientificamente valide le esperienze di ricerca sul campo devono però anche dimostrare di essere state condotte nel rispetto di determinate tecniche e metodi di raccolta dei dati, oltre a dover dimostrare di essere veramente stato là […], l’antropologo si è sempre trovato a dover esplicitare – ora in maniera diretta, ora un po’ meno – il metodo da lui seguito per raggiungere il suo scopo, che consiste nel fornire una rappresentazione, la più “convincente” possibile, del proprio oggetto (Fabietti, Matera, 1997, pag. 39).
Questi strumenti scritti, tuttavia, rivelano qualcosa in più della sola validità scientifica dell’impresa etnografica, riflettono anche quella natura imperfetta che è connaturata alla figura dell’etnografo.
Solo colui al quale fa difetto la perfezione dell’esperimento di esperienza vissuta la intacca mettendosi a narrarlo (Piasere, 2002).
E ancora:
Che cosa fa l’etnografo? Quando non ha capito interamente la vita che ha vissuto, scrive! (ibidem).
Prima di addentrarmi nella descrizione degli strumenti metodologici che rappresentano i ferri del mestiere dell’antropologo (costituendo anche per me un canovaccio strumentale imprescindibile), credo sia utile inquadrare l’impalcatura teorica che negli anni ha sostenuto ed alimentato il lavoro di ricerca sul campo. Diventerà allora più comprensibile l’utilizzo di quell’armamentario fatto di quaderni scritti, diari, lettere personali, registratore, note di campo che Piasere valuta come gli strumenti dell’imperfezione dell’etnografo, i quali concorrono a produrre quello che può essere considerata la dichiarazione più estrema di imperfezione (per chi vuole continuare a seguire il suo pensiero): il testo etnografico finale.
[1] Il Tigray condivide le sue frontiere con aree non appartenenti alla federazione, infatti la regione confina ad ovest con il Sudan e a nord con l’Eritrea. Da un punto di vista geografico il Tigray si estende sull’acrocoro etiope che, in quella zona, ha un’altitudine che varia dai 600 ai 2700 m e supera i 3000 m in prossimità dei rilievi montuosi. Oltre al Mareb e al Tekeze, che nasce nella regione Amhara, il Tigray è attraversato da corsi d’acqua di modeste entità e costellato da laghi di dimensioni ridotte; l’area è, infatti, piuttosto arida, anche perché le precipitazioni si concentrano in ristretti periodi dell’anno e, soprattutto in alcune zone, sono piuttosto scarse. La regione è politicamente in mano alle forze del TPLF, la cui eredità è molto presente in tutti gli ambiti sociali e i posti-chiave dell’amministrazione locale e regionale sono quasi sempre occupati da ex militanti. La popolazione del Tigray raggiunge quasi quattro milioni e mezzo di abitanti e secondo il Central Statistical Agency (CSA) risulta molto omogenea dal punto di vista etnico – il 96,55% degli abitanti sono Tigrini, seguiti dagli Amhara (1,63%), Irob (0,71%) e Afar (0,3%) – e religioso – il 95,6% è di fede etiope ortodossa, il 4% musulmana, lo 0,4% cattolica – (CSA 2008a). Il tasso di crescita demografico è simile a quello relativo alla media nazionale (2,5%) e più dell’80% dei tigrini risiede nelle zone rurali, in villaggi poco estesi e abbastanza dispersi sul territorio..
Da un punto di vista economico, l’attività principale è l’agricoltura, seguita dall’allevamento di ovini e bovini, oltre che di pollame. Meno sviluppato, anche se in forte crescita, è il settore dei servizi e quello commerciale. Lo sviluppo delle industrie è legato alla nascita dell’Endowment Fund for the Rehabilitation of Tigray (EFFORT), fondato con l’obiettivo di mobilitare e mettere insieme i capitali necessari per i grandi investimenti (J. Young, 1997). I cambiamenti avvenuti in ambito economico hanno portato alla nascita di una borghesia cittadina che gode di standard di vita più elevati rispetto a che vive nelle zone rurali. Tuttavia, la maggioranza della popolazione, compresa quella cittadina, vive in condizioni di estrema indigenza materiale e al di sotto della soglia minima di povertà, un indice che aumenta lontano dalle città. Qui, accanto a cattive condizioni igieniche, sanitarie e a livello di strutture sociali, si fa sentire il peso della riforma agraria avvenuta negli anni Settanta sotto il regime del Derg, che ha portato ad una nazionalizzazione della terra. Se questo sistema ha garantito, per un certo periodo, un’equità sociale, con il tempo ha portato ad una stagnazione nella redistribuzione delle risorse e con essa ad un processo di disuguaglianza e di impoverimento sociale, aggravato dalla pressione demografica e dai decenni di guerra (J. Young, 1997). Il governo è corso ai ripari per cercare di migliorare la situazione, soprattutto nelle zone più bisognose, ma, nonostante alcuni miglioramenti in tutti i settori, le gravi carenze del sistema risultano ancora fortemente limitanti per standard di vita dignitosi cui può aspirare l’intera popolazione.
[2] Mekelle sorge nella parte meridionale della Regione, a circa 2000 m di altitudine, ed ospita poco più di 200.000 abitanti. Nel recente passato, la città è stata coinvolta dalle movimentate vicende che hanno caratterizzato l’Etiopia e, in modo particolare, le aree settentrionali del paese. Dopo aver vissuto una breve parentesi di centralità politica durante l’impero di Yohannes IV che la scelse come capitale, Mekelle fu per ben due volte occupata dagli italiani, dapprima per pochissimi mesi, tra il 1895 e il 1986, poi di nuovo nel 1935 e, in seguito alla decolonizzazione, fu presa dai ribelli durante la woyane del 1943. Negli anni successivi fu flagellata da terribili carestie, tra le quali la più devastante fu quella del 1984-85, che provocò una vera e propria “invasione” da parte di decine di migliaia persone in fuga dalle campagne, che furono in parte accolte nei campi profughi allestiti in città per l’occasione e fu coinvolta dalle agitazioni del TPLF, che la occupò solo nel 1989; infine, negli ultimi venti anni, ha subito i terribili effetti della guerra tra Etiopia ed Eritrea, nel corso della quale ha ricevuto pesanti bombardamenti e, in seguito alla presa del potere da parte dell’EPRDF, ha visto incrementare la propria importanza politica. Attualmente, la città è fortemente in espansione sia da un punto di vista demografico che economico e questo contribuisce a creare un tessuto sociale dinamico ed eterogeneo che va dalle élite urbane alle fasce più povere e indigenti della popolazione. Inoltre, Mekelle è il cuore istituzionale, formativo e sanitario della regione.
[3] L.Piasere, L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, 2002, pag. 45, Editori Laterza.
[4] Esponente della letteratura e dell’antropologia latino-americana dove i temi del romanzo si mescolano a quelli del saggio antropologico in un intreccio che non lascia intravedere i confini né dell’uno né dell’altro, e dove per tutti sembra valere quello che dice Gabriel Garcìa Màrquez: “è il dramma di voler stare sempre in un altro posto, senza mai smettere di stare dove si sta. Cioè: lo sconforto di essere partiti, unito allo sconforto di essere arrivati per non stare, in fondo, in nessun posto. Noi latinoamericani, con o senza ragione, volendo o non volendo, siamo stati allo stesso tempo promotori e vittime di questo amaro e prodigioso destino di specchi paralleli.”, Arguedas aveva abbracciato con entusiasmo la proposta di transculturazione avanzata dall’antropologo cubano Fernando Ortiz Fernàndez. Questa prevedeva la possibilità che le culture (quella occidentale e quella caraibica) potessero fondersi senza che vi fossero né vinti né vincitori, dando vita a qualcosa di diverso e di rigoglioso rispetto alla “pianta” d’origine. Arguedas ci aveva creduto fermamente e per questo si era messo a studiare antropologia, nella speranza di dare risposta alla sua condizione esistenziale, alla sensazione che non ci fosse un posto giusto per lui dove sentirsi pienamente a casa. Ma questa sensazione di inadeguatezza, le lacerazioni del suo animo finiranno per prendere il sopravvento sulle speranze. Arguedas è stanco di raccontare le contraddizioni e i percorsi dolorosi di un mondo, di due culture che da secoli si rincorrono, lottano e si mescolano, contraddizioni e fratture che in realtà rispecchiano quelle del suo animo tormentato. L’antropologo non finirà mai la sua ricerca etnografica sulla città di Chimbote, il 28 novembre del 1969 appunta le ultime parole del libro e si toglie la vita.
[5] Cit. in Piasere L. (2002), L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Editori Laterza, Roma-Bari.
[6] Scrive Piasere parlando degli esperimenti-sperimentazioni degli antropologi: «Anche se cercavano l’esperimento, la loro attività principale si è sempre svolta in un modo che porta un nome etimologicamente simile a quello di esperimento: esperienza. Gli antropologi hanno sempre acquisito conoscenze dirette facendo gli etnografi, cioè facendo esperienza degli altri» (Piasere, 2002, pag. 26-27).