Il concetto di gender nella storia degli studi socio-antropologici

Quello di gender[1] è un concetto analitico-critico che si è affermato nell’ambito delle scienze sociali a partire dall’analisi di studiose aderenti a movimenti femministi di varia natura politica, in particolare statunitensi ed inglesi. È analitico nel senso che ha permesso di far luce sui rapporti materiali tra uomini e donne e sui costrutti simbolico-culturali della differenza tra i sessi in maniera più approfondita di quanto prima veniva espresso con il termine di “ruoli sociali”. Come scrive Mila Busoni (2000):

«se già in quella definizione si evidenziava l’elemento sociale e culturale, arbitrario, rispetto a quello “naturale”, nella divisione delle “qualità” umane e nella reciproca posizione di uomini e donne, vi era tuttavia espresso anche un carattere necessitante e statico, una sorta di determinismo sociale – i ruoli sono indispensabili e stanno tra di loro in un rapporto complementare; non si può evitare che vi siano spartizioni di compiti sociali. Il concetto di genere è in grado di esprimere qualcosa di più: non soltanto il carattere sistematico, sociale e variabile delle relazioni tra sessi ma anche quello del loro incardinamento nelle strutture simboliche e ideologiche».

Dunque, fin dall’elaborazione del concetto di genere a partire dai primi anni Settanta c’è stata, nel panorama scientifico, una totale revisione delle concezioni riguardanti le differenze tra uomini e donne. Questa revisione ha interessato in particolar modo due aspetti: il carattere binario delle relazione uomo/donna e la reciprocità delle sue componenti di base. Infatti, se il genere è un modo sessuato con il quale gli esseri umani si presentano e sono percepiti nel mondo, nella società convivono due sessi e il termine genere segnala questa duplice presenza. Si tratta quindi di un termine binario, non univoco: gli uomini, come le donne, costituiscono il genere. Inoltre il genere, ponendo in modo radicale la questione della costruzione sociale dell’appartenenza di sesso, mette in risalto come la condizione femminile – i modi concreti in cui si danno esperienze sociali di donne, inclusa la subordinazione e l’oppressione – non può essere analizzata in modo isolato da quella maschile. Genere, dunque, oltre che un codice binario, è anche un codice che implica reciprocità, dialettica costante fra le sue componenti di base.

È un concetto critico, invece, nel senso che racchiude in sé l’idea di asimmetria e di gerarchia che sono alla base delle iniquità nell’ambito della diversa collocazione di uomini e donne in campo sociale, politico ed economico, dove il sesso/genere giustificherebbe la “naturalità” delle divisioni che sempre si coniugano al negativo per le donne in fatto di prestigio sociale, elevazione di status, accesso alle risorse materiali e simboliche che contraddistinguono, nelle loro peculiarità, ogni forma di vita sociale. Tuttavia, se la divisione dei due sessi è un costrutto sociale, frutto dell’orizzonte simbolico proprio di ogni forma comunitaria, per questo stesso motivo non può trovare legittimazione in un presunto ordine naturale delle cose la diversa posizione assegnata a uomini e donne nella scala del prestigio sociale e del potere politico.

Anche Michelle Rosaldo (1974) rileva “un’asimmetria universale nelle valutazioni culturali dei sessi”. Secondo l’antropologa

«Ogni società conosciuta riconosce ed elabora alcune differenze fra i sessi, e benché esistano gruppi in cui gli uomini indossano le gonne e le donne i pantaloni, accade ovunque che vi siano compiti, contegni, responsabilità caratteristici associati principalmente alle donne o agli uomini. Al di là delle diverse attività riconosciute ai due sessi, quello che sorprende è che quasi sempre alle attività maschili, in contrapposizione a quelle femminili, sia riconosciuta un’importanza predominante, e che i sistemi culturali attribuiscono autorità e valore ai ruoli e alle attività degli uomini».

Il genere, in effetti, è il primo terreno nel quale il potere si manifesta, osservava Joan Scott (1988): nominare il genere significa evocare immediatamente il potere. “Le differenze tra i sessi in natura – il corpo femminile dotato di caratteristiche e capacità proprie, diverse da quelle maschili – si prestano alla costruzione di una disparità storica in virtù della quale la divisione del lavoro, i compiti quotidiani, l’accesso alla sfera intellettuale e simbolica, si sono organizzati nel tempo lungo una profonda asimmetria, a discrimine e a svantaggio del genere femminile”.

Uomini e donne stanno tra di loro in un rapporto ineguale in ogni società e in ogni epoca. Nel Global Human Development Report, del 1995, si legge che “In nessuna società le donne sono protette o trattate egualmente agli uomini. L’insicurezza personale le segue come un’ombra dalla culla alla bara, dall’infanzia all’età adulta; esse subiscono abusi a causa della loro posizione di genere”.

Ciò che viene considerato di pertinenza degli uomini acquista sempre una valenza superiore rispetto a ciò che è considerato essere proprio della sfera femminile. Lo status degli uomini è più alto di quello che occupano, nella medesima società, le donne e questo comporta un’asimmetria nel trattamento dei due sessi. Dunque, il concetto di genere e la sua analisi rispondono ad una spinta intellettuale ben precisa: all’esigenza di attribuire il massimo peso a quanto vi è di socialmente costruito nella disuguaglianza sessuale, a quanto vi è di non biologicamente dato nelle relazioni di disparità tra uomini e donne. A partire da queste considerazioni si capisce come la categoria analitica del genere diventa uno strumento potente per mettere in risalto il carattere arbitrario delle differenze tra sessi/generi, al fine di far avanzare una critica all’assetto sociale degli status di uomini e donne.

«In sintesi, genere indica le divisioni (le differenze di ogni tipo) e le disuguaglianze (le relazioni asimmetriche e gerarchiche) che esistono tra i due gruppi di attori sociali degli uomini e delle donne, mostrandone inoltre il carattere artificiale, costruito e arbitrario – ma anche sistematico. Questa sistematicità risiede nel fatto che le discriminanti differenziali impregnano di sé ogni atto e ogni discorso, a tutti i livelli e in tutti i momenti del vivere sociale. Tuttavia, la variabilità del genere nel tempo e nello spazio, prova evidente dell’origine sociale delle attribuzioni sessuali, ci dice anche che non vi è ragione ultima perché le cose stiano così e che così debbano continuare a stare in futuro» (S. Piccone Stella, C. Saraceno, 1996).

Anche Rosaria Micela (1979) nell’introduzione al libro da lei stessa curato sull’oppressione della donna e ricerca antropologica rilevava che:

«La ricerca antropologica ha contribuito a diffondere l’opinione che la donna sia subordinata pressoché in tutti i sistemi sociali, al di là della presenza della proprietà privata, dello sfruttamento e del conflitto di classe. Il carattere primario della sua condizione di oppressa sarebbe determinato non tanto e non solo da queste coordinate, quanto dall’esistenza di un’altra contraddizione essenziale, quella fra i sessi».

Tuttavia, considerare il predominio maschile universale e, quindi universale la subordinazione della donna, impedisce una visione articolata che permetta di comprendere le forme storiche particolari e strutturalmente differenti che assume il rapporto sociale tra i sessi. Dire che la donna in generale è oggetto dell’azione subordinatrice del potere e dell’ideologia maschile significa non solo livellare la sua posizione all’interno della storia, ma anche dare per scontato un altro assunto dal quale il concetto di genere stesso, ontologicamente, prende le distanze: l’idea che transculturalmente il corpo della donna presenti delle caratteristiche simili, che in tutti i tempi e in tutti i luoghi giustificano la sua presunta “inferiorità” e subordinazione rispetto all’uomo, dotato a sua volta di attributi innati che ne motivano il predominio. Eppure abbiamo già detto come l’idea d’innatismo sia essa stessa una visione culturalmente data e una precisa strategia politica.

Ampi schemi di pensiero come le categorie analitiche del gender, che guidano l’analisi a livello accademico, possono essere delineati, ma è necessario integrarli con le concezioni locali, sia ufficiali che implicite. Confrontarsi con un punto di vista circostanziato riporta a giuste dimensioni anche processi che oggi vengono definiti di mondializzazione.

Il corpo femminile, così come quello maschile, è un’esperienza non un’entità data. In qualità di esperienza il corpo viene concettualizzato e vissuto non secondo i dettami di un ordine biologicamente dato, ma secondo quel particolare processo di incorporazione che abbiamo definito nei paragrafi precedenti e che è dato dalla continua esposizione del proprio corpo all’ambiente socio-culturale in cui si è immersi, che ne definisce le caratteristiche e ne plasma le espressioni peculiari. Se è vero che le società hanno tutte in comune una qualche distinzione tra il maschile e il femminile che include la corporeità, esse però la plasmano secondo una gamma assai vasta di arrangiamenti e di valori nei quali il femminile e il maschile sono strutturati, anche nelle manifestazioni corporee, in modi sottilmente diversi. Il genere dunque non si sovrappone a posteriori come una forma culturale che accoglie in sé le differenze fisiche preesistenti tra uomini e donne, ma è il modo in cui storicamente e socialmente, in un determinato contesto, si attribuiscono significati variabili a quelle stesse differenze fisiche e rilevanza ai fini della differenziazione sociale. Dunque, l’analisi dell’identità di genere non può assumere per scontata l’oppressione e la subordinazione che sempre si accompagna all’atto di definire ciò che è pertinente alla sfera femminile. Probabilmente è vero che le donne più degli uomini subiscono il peso del controllo e del disciplinamento del loro corpo individuale e sociale, e una svalutazione del loro status in rapporto a quello maschile, tuttavia questi rapporti sono costruiti e riprodotti da una particolare ideologia e da peculiari forme istituzionali che vanno localmente contestualizzati. Dopotutto, le differenze e le disuguaglianze di genere non sono più viste in alternativa, o anche in aggiunta, ad altre derivanti dalla stratificazione sociale, o dall’appartenenza etnica o generazionale, ma s’intrecciano con queste, costruiscono al loro interno, dando loro un’impronta specifica. Allo stesso tempo, l’esperienza delle donne è concettualizzata come parte, non esclusivamente passiva, di un contesto insieme istituzionale (sistema normativo, modalità di allocazione delle risorse, organizzazione della famiglia, organizzazione del mercato del lavoro ecc.) e culturale specifico, che implica anche particolari modelli di genere maschile e di rapporti uomo-donna. Perciò bisogna porre l’attenzione ai contesti istituzionali specifici, a livello storico e a livello politico.

La particolarità del contesto etiope emergerà nel proseguo del capitolo, dove il concetto di gender verrà esaminato a partire da una specifica angolazione: l’esperienza di malattia, nel nostro caso della fistola ostetrica e della relativa incontinenza. Prendendo le mosse da ciò che c’è in gioco, nella malattia, nella definizione dell’essere donna, sia in senso corporeo che di riflesso in senso sociale, il genere apparirà non solo culturalmente determinato, ma anche influenzato da più ampi rapporti di potere socio-economico all’interno del contesto storico in cui si modella. Esso apparirà anche sotto una luce particolare: come uno degli assi in cui le forme di oppressione e di malessere sociale vengono incorporati come eventi patologici. Quest’ultimi portano ad un’ulteriore stigmatizzazione e alla perdita di quel capitale simbolico, spendibile solo fintanto che si condividono i tratti (di genere) corporei e sociali in cui una donna è riconosciuta socialmente come parte integrante della comunità.

[1] Il termine “gender” venne introdotto ufficialmente nel discorso scientifico dal saggio di Gayle Rubin, The Traffic in Women, del 1975, in cui l’autrice utilizza l’espressione sex-gender system per denominare l’insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro.