Il corpo nella costruzione dell’identità femminile
La costruzione dell’identità femminile non riguarda esclusivamente il comportamento e le attitudini psico-sociali. È soprattutto attraverso il corpo che gran parte dell’identità di genere trova il terreno per la sua azione performativa. Un corpo inteso come luogo di confine tra il dentro e il fuori, il noi e il loro, l’accettabile e l’inaccettabile, il domestico e il pubblico, la cultura e la barbarie.
Il corpo secondo T.Turner (1980) è “lo scenario simbolico sul quale si rappresenta il dramma della socializzazione”. È sul corpo che i diversi gruppi sociali imprimono i loro marchi culturali, trasformando una donna e un uomo in esseri socialmente riconoscibili.
«Un marchio di appartenenza ma anche di subordinazione, che vincola gli individui a un’identità collettiva e nello stesso tempo li rende oggetto di una strategia di disciplinamento, secondo dispositivi diversi nei confronti dei due sessi» (Pasquinelli, 2007).
Dunque è sul corpo e con il corpo che il genere, prima forma di potere (Scott, 1988), esplica la sua forza dominatrice e la sua capacità di controllo e di subordinazione. Anche Foucault vedeva nel corpo uno spazio in cui il potere esercita il suo controllo. Per lui il corpo è dominio in cui s’inscrivono i rapporti di potere e dall’altro è strumento primo ed ultimo di potere sugli individui. È proprio attraverso il corpo che il potere si afferma e si riproduce: esso è biopotere. Foucault focalizzava la sua analisi sulle società occidentali e su quelle istituzioni come il carcere e la chiesa con le quali il corpo politico può addomesticare e riprodurre il tipo di corpo sociale ed individuale che è congeniale all’ordine stabilito. Nel nostro caso l’analisi di Foucault rimane pertinente, visto che è sul corpo e attraverso il corpo che anche la società etiope esercita il suo controllo sugli individui, plasmandone attributi, competenze, diritti e doveri, ma lo fa attraverso un’ideologia che usa soprattutto istituzioni come il matrimonio e la famiglia per esercitare il controllo e la subordinazione delle vittime di fistola ostetrica.
Perdere alcuni segni che caratterizzano la propria condizione di genere nell’ambito di un riconoscimento etnico e comunitario significa essere condannati all’emarginazione e alla ripulsa e quindi a perdere quell’inestimabile risorsa simbolica che è l’appartenenza e il riconoscimento sociale. È quello che succede alle donne malate di fistola vaginale, le quali dopo l’insorgenza del problema perdono le connotazioni di integrità e di funzionalità che le erano proprie in qualità di donne, di mogli e di madri.
È ancora la Pasquinelli a mettere in evidenza l’importanza della plasmazione corporea nel definire le caratteristiche di gender tipiche dell’identità femminile e di quella maschile. L’antropologa scrive che:
«Il genere è un processo di definizione del sé secondo l’adesione ai modelli culturali che si sono storicamente costruiti sulla differenza di sesso. Si tratta per lo più di modelli impliciti nelle forme di agire che proiettano la differenza tra i sessi sul piano culturale riscattandola dalla pura appartenenza biologica. Mentre nelle società complesse lo statuto del genere è soggetto a una negoziazione continua, nel senso che nessuna delle distinzioni che oggi contrappongono uomini e donne è destinata a rimanere a lungo uguale a se stessa e come tale non può essere data per scontata, nelle società tradizionali lo statuto di genere appare più stabile e allo stato attuale meno permeabile al cambiamento. Nelle società africane la creazione dell’identità di genere, prima di essere un percorso metaforico, è una manipolazione fisica dei corpi».
L’autrice in questo passaggio allude a quelle manipolazioni corporee che hanno a che fare con le mutilazioni genitali femminili, che forse sono lo strumento più potente di assoggettamento e di controllo del corpo femminile e insieme un’istituzione fondamentale per il riconoscimento di genere e per il mantenimento dell’ordine socio-economico fondativo di quelle popolazioni che le praticano. Benché il mio interesse si sia focalizzato su un altro tema, vedremo come molti elementi metaforici che concorrono a spiegare e giustificare queste pratiche di intervento sul corpo femminile, si ritrovano anche nelle definizioni del corpo femminile socialmente accettabile ed economicamente funzionale della realtà etiope.
Ogni società costruisce un particolare tipo di corpo che racchiude i concetti di bellezza e di funzionalità, ma nello stesso tempo ogni cultura parla di questo corpo costruito nei termini di integrità, una nozione che rispecchia una visione naturalistica del corpo, la quale ne occulta le manipolazioni attraverso cui ogni ordinamento culturale costruisce corpi differenti.
«L’integrità non è altro che una particolare costruzione culturale del corpo. Cultura incorporata, che fa del nostro corpo il depositario muto dell’arbitrio culturale, ma con l’apparenza ingannevole della natura. Questo fa sì che noi viviamo i nostri corpi nella più totale inconsapevolezza della loro dimensione simbolica, che ci è invece facile decriptare nei corpi degli altri, oggettivati dal nostro sguardo naturalistico. Sia i nostri che i loro sono corpi agiti come simboli, in cui si rispecchiano i rapporti di dominio e asimmetria delle relazioni di genere proprie delle rispettive società. Simboli che s’iscrivono sui corpi predisponendoli a destini di autonomia o di oppressione. Più spesso corpi assoggettati che liberi» (Pasquinelli, 2007).
Come abbiamo già detto a proposito dell’incorporazione, la naturalizzazione delle pratiche con cui la cultura costruisce le appartenenze di genere, fa si che sia molto difficile intervenire a modificare le asimmetrie di potere che regolano i rapporti tra i sessi. Agendo nei corpi e sui corpi la società riesce a riprodurre le condizioni, simboliche e materiali, che perpetrano l’ordine sociale senza farne intravedere le strategie riproduttive. È proprio in questa operazione naturalizzante che l’ideologia sociale, politica e morale di ogni società trova la sua forza e la sua inoppugnabilità.
Secondo la O’laughlin (1974) per riprodurre un sistema di rapporti sociali che o contiene al suo interno delle contraddizioni, o è fondato su di esse, la società deve mediare queste contraddizioni all’interno delle sovrastrutture politico-giuridiche e/o delle rappresentazioni ideologiche. A livello della “ideologia” sono innumerevoli le espressioni di distinzione fra i sessi e di affermazione del predominio maschile, accettate sia dagli uomini che dalle donne. L’ideologia, concepita non solo e non tanto come allusione a rapporti sociali dati (L. Althusser, 1974), appare in questo contesto parte integrante della produzione simbolica e della riproduzione sociale.
Secondo Maurice Godelier (1976)[1],
«Le rappresentazioni, l’ideologia, sono condizioni e componenti interne della pratica sociale, e dunque istituzioni attraverso cui questa pratica assume forma e realtà sociali (…). L’ideologia non riflette, inventa ragioni e le offre per costruire, a partire da esse, una pratica che proviene interamente dall’ambito della cultura, se non dalla coscienza. Inventa senso e lo dà a ciò che non lo ha. Produce senso, produce evidenze false che diventeranno un modo legittimo e normale di pensare e di agire, un’abitudine, una seconda natura. Se le donne, ad esempio, vengono escluse dai compiti complessi, esse non sono in grado di eseguirli: ciò diventa la giustificazione del fatto che debbano essere escluse da questi compiti».
Elemento di riproduzione di rapporti sociali determinati e di mediazione delle contraddizioni fra i sessi, l’ideologia appare in questo contesto una funzione essenziale del sistema simbolico adibita a riprodurre specificamente le condizioni della subordinazione della donna. Questa riproduzione delle disparità parte quasi sempre dal corpo e soprattutto dall’osservazione e dalla concettualizzazione dell’apparato anatomico-riproduttivo.
La O’Laughlin (1974) a tale riguardo sostiene che:
«Il fatto che l’espressione simbolica dell’asimmetria sessuale sia radicata nella riproduzione biologica non è sorprendente. La diversità dei sistemi riproduttivi è, dopotutto, la differenza fisiologica fondamentale fra uomini e donne. La conversione della differenza fisiologica in asimmetria però deve essere socialmente motivata, deve, cioè, essere spiegata in rapporto alle usanze sociali. Dal momento che i gradi e le espressioni dell’asimmetria sessuale variano moltissimo, da una società all’altra, si devono osservare i vari casi particolari, per vedere come la “divisione naturale del lavoro” venga ampliata e trasposta socialmente e ideologicamente in rapporti di ineguaglianza sessuale».
Un tale schema di analisi evidenzia la dinamica fra rapporti di produzione/ideologia/simbolico e permette di cogliere, a livello delle categorie, i nessi fra i fondamenti materiali su cui poggia il dominio maschile e la creazione d’immagini che ne rendono possibile l’accettazione e la riproduzione.
Tenendo presenti queste premesse è ora possibile parlare delle concettualizzazioni e delle pratiche che definiscono l’appartenenza di genere delle donne etiopi e la loro relativa posizione sociale.
[1] Cit. in Rosaria M. (a cura di) (1979), Oppressione della donna e ricerca antropologica. Immaginario e realtà nella subordinazione femminile, Savelli Editori.