Il lungo impero di Haile Selassie e la parentesi coloniale italiana

Tafari Makonnen, già governatore di Kaffa, nella parte meridionale dell’impero, venne nominato re nel 1928 con il nome di Haile Selassie, e dopo due anni fu proclamato imperatore. Appena salito al trono, il nuovo sovrano confermò la sua adesione al partito progressista, dando battaglia ai privilegi feudali, cercando di accentrare tutti i poteri nelle sue mani e intervenendo nei vari settori della società. I cambiamenti furono sanciti dall’introduzione della prima Costituzione della storia d’Etiopia, varata nel 1931 che, oltre ad istituire un parlamento bicamerale, garantì all’imperatore il monopolio sulle questioni di giustizia, politica estera e suscitò grandi proteste da parte della classe aristocratica, che non fu però del tutto marginalizzata. Come nota Calchi Novati (1994), la Costituzione, più che un diritto, si presentava come “un dono elargito dall’imperatore ai sudditi con aulica benevolenza” e, di fatto, non inclinò il potere centrale di Haile Selassie, che rimase fuori e al di sopra della legge. Le sue iniziative furono però interrotte dalla breve parentesi coloniale.

Dopo la disfatta di Adua, il Corno d’Africa rimase negli interessi della politica estera italiana e l’espansione coloniale ai danni dell’Etiopia riesplose con l’avvento del fascismo. L’apertura delle ostilità fu anticipata da una serie di eventi (tra cui il riconoscimento nel 1925 tra Roma e Londra delle rispettive zone d’influenza sull’Etiopia, in violazione della sovranità del paese abissino, e gli scontri per l’indefinito confine somalo) che, considerato anche l’atteggiamento ambiguo della Società delle Nazioni cui Haile Selassie si rivolse, furono un preludio all’attacco militare, nel 1935. Infatti, il 3 ottobre dello stesso anno l’esercito italiano stanziato in Eritrea sulle frontiere del Tigray varcò il fiume Mareb con il comandante De Bono. Dalla Somalia partì invece la spedizione di Graziani. Haile Selassie, come risposta, rinviò l’ordine di mobilitazione fiducioso in un intervento della Società delle nazioni. In realtà, l’Etiopia rimase sola nel fronteggiare l’attacco italiano. Caddero Adua, Adigrat e Mekelle (tre delle più importanti città del Tigray). Nonostante la superiorità dei mezzi bellici italiani e l’uso indiscriminato delle armi chimiche[1] sulla popolazione civile, la vittoria dell’Italia non fu lampante e soprattutto priva di grandi sforzi. L’Etiopia, infatti, era una fortezza naturale, e la divisione in autorità feudali, decise a combattere autonomamente per difendere i propri possedimenti, fu un ostacolo per una rapida conquista. Mentre le forze etiopiche si concentravano nella guerriglia, De Bono fu sostituito dal maresciallo Badoglio che entrò ad Addis Abeba il 5 maggio 1936; quattro giorni dopo, il Duce proclamò la fondazione dell’impero d’Etiopia, di cui Badoglio fu nominato viceré e governatore. Nel frattempo, Haile Selassie aveva abbandonato il Paese interrompendo la tradizione degli imperatori di vincere o morire in battaglia.

Nei pochi anni di dominazione, l’Italia riorganizzò la cosiddetta Africa Orientale Italiana (AOI), dividendola in sei province (Eritrea, Amhara e Gondar, Galla e Sidamo, Harar, Somalia, Addis Abeba), e cercò di indebolire tutte le forme di potere, favorendo l’Islam sul cristianesimo e penalizzando gli Amhara in favore degli Oromo, dei Somali e soprattutto degli Eritrei, allargando quelle crepe, formatesi già alla fine dell’Ottocento, tra l’Etiopia e il suo avamposto sul mar Rosso. Tuttavia il paese non fu mai pacificato; il controllo italiano fu limitato alle aree urbane e gli interventi furono principalmente strutturali, attraverso la costruzione di edifici e vie di comunicazione, senza una vera penetrazione nel tessuto sociale ed economico. L’attentato al viceré Graziani del 1937 è solo la più nota delle numerose iniziative portate avanti dalla resistenza; quasi ovunque si crearono gruppi di guerriglieri che misero costantemente in discussione l’esercizio del potere coloniale. Nell’analisi della storia etiope, Zewde (2001) fornisce una descrizione fortemente elogiativa di quell’esperienza, sostenendo che “la Resistenza forma un capitolo glorioso della storia dell’Etiopia moderna. È ancora un’altra dimostrazione della prontezza degli etiopi a morire per la libertà e l’indipendenza”. Tuttavia, secondo lo storico, molti furono i punti d’ombra, dovuti principalmente alla mancanza di coesione tra i diversi gruppi che, in alcuni casi, arrivarono a farsi guerra l’un l’altro; la resistenza, in effetti, sebbene animata da intellettuali di formazione europea e rinvigorita da contadini e braccianti, era profondamente legata agli aristocratici, ai grandi proprietari che, insieme alla libertà, difendevano i propri interessi di potere.

Con la seconda guerra mondiale ci fu da parte dell’Italia la perdita di tutti i suoi possedimenti coloniali. Le forze del Commonwealth penetrarono in Etiopia poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia e permisero ad Haile Selassie di rientrare ad Addis Abeba nel 1941. Tuttavia, il nuovo scenario che l’imperatore si trovò di fronte fu fortemente limitante per la sua sovranità. L’ingerenza della Gran Bretagna si faceva sentire attraverso i due trattati anglo-etiopici del 1942 e del 1944, con i quali la nazione si era garantita alcune prerogative fiscali e territoriali sul Paese, che si configurava come una semi occupazione militare, inaccettabile per Selassie.

Le questioni più spinose riguardavano le controversie territoriali relative all’Ogaden e all’Eritrea, rivendicati dall’Etiopia, in nome della sua estensione territoriale pre-coloniale, ma sotto il controllo britannico. Per quanto riguarda l’Ogaden, l’area semidesertica al confine con la Somalia, la soluzione coincise con l’abbandono, nel 1950, del progetto britannico della Grande Somalia e con il ritorno della regione all’Etiopia (mentre il resto del paese fu affidato, per dieci anni, all’AFIS, l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia). Più complessa era la situazione relativa all’Eritrea perché coinvolgeva diverse potenze, tra cui non solo l’Italia e la Gran Bretagna, ma anche gli Stati Uniti d’America che erano interessati a rafforzare la propria presenza in una regione ritenuta rilevante dal punto di vista geopolitico. In particolare, gli interessi degli USA nel Corno d’Africa erano legati a Radio Marina, una stazione di comunicazione in territorio eritreo occupata durante la seconda guerra mondiale, fondamentale per i contatti con il Medio Oriente; inoltre, già durante la seconda guerra mondiale, Haile Selassie aveva allacciato fecondi rapporti con gli Stati Uniti che nel dopoguerra furono rinsaldati. D’altra parte, per l’Etiopia, l’Eritrea era un obiettivo imprescindibile per motivi che avevano a che fare, da un lato, con l’eredità storica e con ragioni di unificazione nazionale e, dall’altro lato, con l’importanza strategica di avere uno sbocco al mare. Al di là del fiume Mareb, invece, le posizioni erano più variegate, perché le forze politiche e l’opinione pubblica del paese costiero erano spaccate tra unionisti, che costituivano un fronte piuttosto compatto, e indipendentisti, che erano un conglomerato composito di gruppi. Sebbene sia possibile parlare di una prevalenza delle posizioni unioniste tra i cristiani e di quelle separatiste tra i musulmani, secondo Zewde (2001) sarebbe errato sovrapporre, da questo punto di vista, credo religioso e convinzioni territoriali e politiche: infatti, appartenenza religiosa (cristiani versus musulmani) e appartenenza “etnica” e nazionale s’intrecciavano con gli interessi politici ed economici che ogni parte cercava di difendere. Per dirimere la situazione, l’ONU nominò una Commissione d’inchiesta che si pronunciò nel 1950 in favore di una soluzione intermedia, cioè la federazione; tale soluzione era sostenuta, tra gli altri, dagli Stati Uniti che, non a caso, nel 1950 inaugurarono un decennio caratterizzato da stretti rapporti con l’Etiopia e dalla forte influenza nelle vicende interne etiopi. Il federalismo entrò in vigore nel 1952, ma risultò subito una soluzione difficile e inappropriata per la cultura locale. Nel 1962 l’Eritrea fu annessa all’Etiopia come provincia.

Ritornato al potere, Haile Selassie continuò l’opera di modernizzazione iniziata precedentemente e ora resa ancor più necessaria dal rapporto allacciato con le potenze occidentali e dalla sua volontà di entrare negli assetti capitalistici. Il primo passo fu la modifica della costituzione nel 1955, che istituì un Parlamento eletto a suffragio universale. Tuttavia, come fa notare Calchi Novati (1994) in assenza di partiti e con la presenza di poteri ereditari ancora forti, il processo di democratizzazione ebbe effetti solo formali, perché il vero nucleo del potere continuò ad essere saldamente nelle mani dell’imperatore, delle forze armate, dei grandi proprietari terrieri e del clero ortodosso.

In ambito economico ci furono le prime trasformazioni dovute dalla produzione moderna e dalla privatizzazione della terra, che fu tuttavia uno dei motivi che fece innescare una serie di ribellioni nelle diverse province contro il potere accentratore di Selassie. Infatti, benché questo processo fosse volto formalmente ad una redistribuzione equa delle proprietà terriere, di fatto peggiorò la condizione di vita dei contadini, aggravata anche da alcuni disastri ambientali.

Così, a partire dagli anni Sessanta si aprì una stagione di scontri da parte della classe contadina (già anticipata da quelli esplosi nel Tigray nel 1943) in diverse province dell’Etiopia. Parallelamente alle proteste della classe lavoratrice, si svilupparono diverse iniziative che si opponevano al potere centrale ed esprimevano aspre critiche nei confronti del sistema imperiale; ad animare le proteste erano vari soggetti, quali i reduci della resistenza, gli studenti, gli indipendentisti eritrei, i dignitari ed i militari, ognuno con le proprie prerogative specifiche.

Un fronte importante di opposizione era costituito dagli indipendentisti eritrei, la cui soluzione adottata dall’ONU dopo la fine della seconda guerra mondiale non aveva placato il contenzioso anzi, “per trent’anni l’Eritrea è stata teatro di una guerra – secessionista o di liberazione a seconda della prospettiva – con effetti dirompenti per l’integrità complessiva dello Stato etiopico” (Calchi Novati, 1994)[2].

In questo contesto di forti tensioni e malcontenti, mentre la maggior parte degli Stati africani si preparava all’indipendenza, in Etiopia scoppiò il colpo di stato. Il complotto fu organizzato da alcuni ufficiali della guardia imperiale che nella notte tra il 13 e il 14 dicembre del 1960, mentre Haile Selassie era in visita in Brasile, provvidero a formare un nuovo governo. Alla testa del movimento c’erano Menghistu e Girmane Neway, i quali volevano rimodellare l’intero sistema sulla base degli elementi che caratterizzavano il nazionalismo africano. Tuttavia, il 17 dicembre, dopo una dura repressione culminata con la messa a morte di Menghistu in una piazza di Addis Abeba, Haile Selassie riconquistò il potere e per bloccare la nascente opposizione decise di intensificare il ricambio nei ranghi dell’amministrazione. Dopo questo evento, ci fu un’intensificazione delle misure di sicurezza e il tentativo di cooptare nella corte alcuni esponenti delle nuove generazione di intellettuali e commercianti, per disinnescare le pressioni dell’opposizione; le conseguenze di queste scelte, tuttavia, furono quelle di portare le tensioni nel cuore del potere, mettendo ancora più a rischio la stabilità di Haile Selassie.

I primi anni Settanta furono, inoltre, caratterizzati da un peggioramento delle condizioni economiche e materiali del Paese, causate da una concomitanza di fattori, quali la chiusura del canale di Suez per la guerra dei sei giorni (1967), l’aumento del prezzo della benzina e il susseguirsi di terribili carestie che provocarono migliaia di vittime nel nord e nella regione del Wollo.

Nel 1974 iniziarono le prime agitazioni in ambiente urbano, e in particolare ad Addis Abeba, che sfociarono in un’ondata di scioperi e proteste verso la fine di febbraio, animate da tassisti, impiegati, disoccupati, studenti, seguiti poco dopo dai militari e dalle forze dell’ordine che, invece di reprimere le agitazioni, simpatizzarono con la folla. Oltre a rivendicazioni di carattere economico, i dimostranti, soprattutto gli studenti e i professori, avanzavano anche richieste di tipo politico, quali libertà civili, abolizione della censura, riforma agraria, elezioni governative, uguaglianza tra le religioni e così via (Calchi Novati, 1994). Protestarono anche i membri della Chiesa ortodossa e i musulmani. Il potere imperiale si mostrò incapace di gestire la situazione e il mutamento del governo e l’aumento delle paghe non placarono gli animi. In quei mesi, tra marzo ed aprile, venne a formarsi un Comitato (in amharico Derg) di coordinamento di ufficiali, sottoufficiali e soldati che prese la leadership della rivolta. Il loro fu, nelle parole di Zewde (2001), un vero e proprio “colpo strisciante”, nel senso che da gruppo di professione militare fedele all’imperatore, finì per erodere il potere imperiale fino a portare alla deposizione del regnante. Questa avvenne il 12 settembre 1974 e con la cacciata di Haile Selassie si concluse la tradizione monarchica e la mitica dinastia che discendeva da re Salomone.

[1] A tal proposito si veda Rochard (1989) e Del Boca (1996).

[2] In effetti, la soluzione della federazione non durò a lungo. Nel novembre del 1962 l’Eritrea divenne la quattordicesima provincia dell’Impero. Questa svolta fu dovuta sia all’incapacità della classe dirigente eritrea di sfruttare gli ambiti di libertà e di iniziativa politica su cui poteva contare inizialmente, sia dalle continue interferenze economiche e politiche dell’Etiopia. L’opinione pubblica eritrea, inoltre, era stata fin dall’inizio poco favorevole nei confronti della soluzione federale, che scontentava sia gli unionisti che i separatisti; già verso la fine degli anni Cinquanta nacquero i primi movimenti e, nel decennio successivo, l’organizzazione di riferimento del fronte antiunionista fu l’Eritrean Liberation Front (ELF), fondato nel 1961 da intellettuali eritrei fuggiti in Medio Oriente, che animò le iniziative militari contro le forze imperiali. A causa di dissidi interni, dall’ELF si formarono molte altre realtà politiche e la leadership del movimento di indipendenza fu infine assunta, nel 1973, dal EPLF (Eritrean People’s Liberation Front) (Zewde, 2001).