Il regime militare e i fronti di liberazione
Con la rimozione del negus, il potere fu immediatamente assunto dai militari attraverso il Provisional Military Administrative Council (PMAC) che scardinò tutte le istituzioni imperiali, compresa la Costituzione, il Parlamento e quel sistema feudale su cui si era fondato l’equilibrio politico e sociale per secoli. A partire dalla legislazione del 1975 i militari, di ideologia marxista-leninista, avviarono un processo di nazionalizzazione delle banche, delle imprese estere, delle aziende commerciali e industriali private, ma anche delle case e della terra. Infatti, con la riforma agraria del 1975 ci fu l’abolizione del feudalesimo e la collettivizzazione degli antichi possedimenti. Il nuovo sistema prevedeva che ogni contadino potesse usufruire di un appezzamento di terreno e sarebbe dovuto essere regolato da “associazioni contadine”.
Nel 1977, dopo una serie di tensioni e di epurazioni interne al comitato, assunse la direzione del Derg Menghistu Haile Mariam, un uomo particolarmente astuto che aveva fisicamente eliminato tutti i suoi avversari, ammantando quel periodo del regime militare (noto come “terrore rosso”) di un’aura di terrore e di violenza. La violenza non risparmiò, ovviamente, nemmeno gli oppositori al Derg. Tra questi c’erano l’Ethiopian People’s Revolutionary Party (Eprp), costituito da studenti tornati dall’estero, e il Meison, il Movimento socialista panetiopico.
Dal punto di vista internazionale, il regime ruppe i già allentati legami con gli Stati Uniti d’America per avvicinarsi a Cuba e, soprattutto, all’URSS che garantì appoggio militare all’Etiopia nella guerra alla Somalia. Nel 1977, infatti, il dittatore somalo Siyad Barre, salito al potere nel 1969, aveva invaso l’Ogaden, dilagando anche in altre regioni limitrofe e violando gli ammonimenti dell’URSS, suo alleato, in nome di un pansomalismo mai sopito; per tali ragioni, quello stesso anno, l’Etiopia lanciò una violenta controffensiva che, in breve tempo, ripristinò gli antichi confini. Gli accordi di pace furono firmati nel 1988, ma le due parti non perfezionarono tutti gli impegni previsti.
Durante gli anni del regime militare, la rivoluzione subì un processo di assestamento su tre piani: quello della leadership personale di Menghistu, quello del Workers Party of Ethiopia (Wpe) costituito nel 1984, e quello delle istituzioni, intese a regolare le nuove relazioni fra i poteri, le classi, la nazionalità (Calchi Novati, 1994). Il punto d’arrivo di tutto fu la proclamazione, nel settembre del 1987, della Repubblica democratica popolare d’Etiopia basata sulla Costituzione e sull’Assemblea Nazionale, anche se di fatto tutti i poteri erano concentrati nelle mani dell’esecutivo, cioè del WPE che replicava la gerarchia militare della rivoluzione. Anche le organizzazioni di massa furono sottomesse al regime. Tuttavia, il malcontento era diffuso e radicato in tutti gli ambienti sociali, compresi i ceti emergenti, che avevano preparato la rivoluzione e se ne sentivano “derubati” dopo che l’esercito era entrato in ogni organo statale, e i contadini, la cui condizione non era migliorata nonostante la nazionalizzazione delle terre. Il paese era, infatti, flagellato da una continua carenza di cibo, accentuata dalla mancanza di investimenti e, soprattutto, da ripetute siccità che raggiunsero il loro apice tra il 1984 e il 1985. Si è calcolato che, in pochi mesi, morirono circa un milione di persone e l’emergenza fu superata solo grazie all’intervento degli aiuti internazionali; il governo fu, in quell’occasione, accusato di aver occultato la reale tragicità delle condizioni in cui versava il paese per non rovinare i festeggiamenti per il decimo anniversario della rivoluzione e di aver, in questo modo, ritardato l’arrivo degli aiuti (Calchi Novati, 1994).
Questa volta però, a provocare un nuovo ribaltamento dell’equilibrio politico non furono tanto le tensioni e le lacerazioni interne al potere, quanto l’azione contemporanea di due fronti armati nati nelle regioni settentrionali del Paese, cioè l’EPLF e il TPLF.
Come si è visto, l’EPLF nacque nei primi anni Settanta e dovette, fin dall’inizio, confrontarsi con l’ELF; i rapporti tra le due organizzazioni furono tesi e violenti e ben presto si scatenò una vera e propria guerra civile che si sviluppò parallelamente a quella per la liberazione. Il confronto fu animato non tanto da questioni ideologiche (benché un movimento fosse a maggioranza musulmana e l’altro d’ispirazione marxista-leninista), quanto dalla competizione per il controllo del potere e del territorio, e sancì, alla fine degli anni Settanta, la supremazia dell’EPLF. Inoltre, con gli anni, il fronte antiunionista radicalizzò le proprie posizioni e l’obiettivo iniziale di ripristinare gli accordi per la federazione, violati nel 1962, fu sostituito da quello dell’indipendenza, all’interno di una rilettura coloniale della presenza etiope in Eritrea.
Dall’altra parte del fiume Mareb, invece, il Tigrayan People’s Liberation Front affondava le proprie radici nei movimenti studenteschi sorti intorno all’università di Addis Abeba tra gli anni Sessanta e Settanta ( Zewde, 2001), e si costituì ufficialmente nel 1975, quando in una provincia occidentale del Tigray, lanciò una prima offensiva militare con l’obiettivo di liberare il paese dal controllo della dittatura militare. Dopo aver affermato la propria supremazia sulle altre organizzazioni analoghe sorte in Tigray, il TPLF ottenne numerose vittorie contro l’esercito del Derg, la cui strategia antinsurrezionale, applicata sia in Tigray che in Eritrea, si basava su spostamenti di popolazioni, incursioni militari contro le zone controllate dai fronti di liberazione, bombardamenti ed esclusione dai programmi di sviluppo e intervento regionale.
Le due organizzazioni avevano inizialmente rapporti profondamente ostili per ragioni ideologiche: il TPLF si basava sul principio dell’autodeterminazione di ogni popolo ed aveva un forte elemento antisovietico, mentre l’EPLF era un movimento che rappresentava l’eterogenea composizione della società eritrea, pensata come un unico stato, ed era maggiormente aperto ad accogliere aiuti esteri. Tuttavia, le divergenze furono messe da parte per sconfiggere il nemico comune e, in effetti, le due organizzazioni portarono avanti l’offensiva in maniera quasi parallela e coordinata.
Quando, verso la fine degli anni Ottanta, il TPLF arrivò a controllare l’intero territorio regionale, rilanciò le proprie ambizioni e, unendosi con organizzazioni sorte altrove in Etiopia (tra cui l’EPRP che operava nel Wallo, l’organizzazione amharica Ehiopian People’s Democratic Movement, l’Oromo People’s Democratic Organization, l’Ethiopian Democratic Officers’ Revolutionary Movement), diede vita all’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF) con l’obiettivo di sconfiggere il Derg entro il 1991.
Le ragioni che condussero alla caduta del regime militare sono, anche in questo caso, molteplici e hanno a che fare con la crisi economica, con l’incapacità di tenere unito un insieme composito, con il mutamento degli equilibri internazionali. I primi segni di questa debolezza furono un tentativo di colpo di stato nel 1989 e, l’anno dopo, la decisione di Menghistu di intraprendere la strada della diplomazia per mediare con le forze ribelli eritree ed etiopi; nonostante questi tentativi e l’intervento di forze internazionali, tra cui gli Stati Uniti d’America, i negoziati si rivelarono un fallimento e, nel maggio del 1991, l’EPLF entrò vittorioso ad Asmara e pochi giorni dopo l’EPRDF fece il suo ingresso ad Addis Abeba, da dove, poco prima, Menghistu era fuggito.