DONNE AI MARGINI
LA FISTOLA OSTETRICA SECONDO UNA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA:
UN PROBLEMA DI VIOLENZA STRUTTURALE
Il presente lavoro si basa su una ricerca effettuata nella città di Mekelle, la capitale del Tigray, nella regione più a nord dell’Etiopia, in un periodo compreso tra il novembre del 2009 e l’aprile del 2010.
Il focus della mia ricerca è stata la fistola ostetrica, o meglio le rappresentazioni e le pratiche terapeutiche messe in atto dai diversi attori della scena sociale intorno al problema della malattia.
La fistola, da un punto di vista biomedico è una comunicazione patologica, di forma tubulare, tra due strutture o tra due cavità dell’organismo o tra esse e l’esterno, che normalmente sono separate. Le fistole possono apparire in qualsiasi parte del corpo, ma come lascia intuire l’appellativo “ostetrica”, quelle poste sotto la mia lente d’indagine riguardano esclusivamente l’apparato genitale femminile ed hanno un tempo e un luogo d’insorgenza che è il parto. Con la categoria nosologica di fistola ostetrica si è voluto raccogliere l’insieme delle fistole che possono apparire nella zona genitale.
Esse sono:
Tuttavia, come apparirà chiaro nel corso dell’elaborato, l’analisi biomedica è solo uno dei livelli in cui può essere intesa una malattia e le sue spiegazioni non sono nemmeno decisive per render conto della sua qualità esistenziale. Nel caso della fistola ostetrica, le origini vanno ricercate in un assetto sociale ed economico profondamente ineguale e materialmente plasmato e limitato dalla povertà.
Sono passati quasi due anni tra il momento della raccolta dei dati e quello della loro elaborazione. Un tempo lungo che rischia, per la qualità opacizzante e selettiva che il tempo opera sulla memoria e sulle coscienze individuali, di indebolire il profondo senso emotivo che la conoscenza e il contatto dell’ “altro” sempre producono. Da ciò è emersa la consapevolezza dell’impossibilità di continuare a rimandare l’elaborato, ma soprattutto il desiderio di aiutarmi a non dimenticare. Non dimenticare l’Etiopia, la sua sconvolgente bellezza, le sue immense contraddizioni, la sua ricchezza umana e la sua estrema povertà materiale. A non dimenticare Abeba, Haimanot, (e tutte le vittime di fistola ostetrica), mama Kiros e Mama Alima (così come le altre TBAs che mettono a disposizione il loro sapere e la loro attività per aiutare le donne a partorire secondo la tradizione), Salomon e gli atri guaritori tradizionali, il professor Gordon William e quanti operano nel campo, privato e pubblico, della salute e delle istituzioni umanitarie. L’elenco delle persone da non dimenticare e da ringraziare è lungo e d’altronde non lo vorrei ridurre ad una lista di nomi che evocherebbe poco della profondità delle loro esistenze. È per questo che ho deciso di riprendere in mano questa parte della mia vita e di lasciare una testimonianza di tutti loro e delle forze sociali che limitano o innalzano le loro vite, a seconda della posizione occupata all’interno della società.
Così scrive Nancy Scheper-Hughes (1992) nel prologo del suo libro Death without weeping:
L’etnografo, come l’artista, è impegnato in un tipo speciale di ricerca della visione attraverso una specifica interpretazione della condizione umana, una completa sensibilità, è forgiata. Il nostro medium, il nostro canovaccio, è il “campo”, un posto sia vicino ed intimo (perché vi abbiamo vissuto parte delle nostre vite) che per sempre distante e che non ci permetterà di conoscere l’ “Altro” (perché i nostri destini risiedono altrove).
Nell’atto di “scrivere la cultura”, ciò che emerge è sempre una testimonianza altamente soggettiva, parziale e frammentaria – ma anche profondamente sentita e personale – di vite umane, fondata sull’essere un testimone oculare e un depositario.
L’atto di testimoniare è ciò che conferisce al nostro lavoro il suo carattere morale (e allo stesso tempo quasi teologico). La cosiddetta osservazione partecipante guida l’etnografo negli spazi della vita umana, dove in realtà ella od egli preferirebbero non andare affatto e una volta là non sa come tirarsi fuori se non attraverso la scrittura, la quale trascina gli altri dentro, rendendoli parte dell’atto di testimonianza.
Poiché ogni malattia è un evento complesso che interseca diverse rappresentazioni simboliche, differenti pratiche di cura e numerose forze micro e macro sociali, ho deciso di strutturare il seguente lavoro seguendo un itinerario preciso che parte dall’analisi del contesto storico entro il quale si sviluppa l’indagine del problema preso in esame (la fistola ostetrica), passando ad illustrare la metodologia e le ipotesi di ricerca che hanno guidato il mio lavoro sul campo fino ad arrivare all’elaborazione dei dati etnografici.
Anche quest’ultima parte è stata organizzata secondo un cammino che si snocciola seguendo un chiaro percorso di pensiero che va dall’analisi della fistola ostetrica in base alle categorie che sottendono il sistema medico occidentale, per operare una decostruzione delle stesse e una ricostruzione in base alle nosologie e alle eziologie locali. Esse faranno emergere un mondo morale e simbolico locale le cui metafore ci permetteranno di ricostruire le concezioni corporee della femminilità e della socialità della donna etiope, mostrando come questi assunti sul corpo e sullo statuto sociale del sesso femminile condizionano le loro possibilità di andare in contro a determinate forme di sofferenza e di poter intraprendere percorsi di risanamento del malessere che le affligge.
La malattia emergerà, allora, come una forma di incorporazione della sofferenza legata ad assetti non paritari delle relazioni di potere tra uomini e donne, mostrando così tutto il suo carattere di evento culturalmente modellato. Tuttavia, il gender e le forme simboliche su cui poggia ogni società umana non sono sufficienti a giustificare l’esposizione di un determinato gruppo di persone a forme particolari di sofferenza. Se così fosse si dovrebbe ammettere che tutte le donne etiopi sono potenzialmente a rischio di contrarre le stesse patologie, come la fistola ostetrica. Invece, per alcune le potenzialità si annullano mentre per altre si fanno concrete realtà di malessere fisico e sociale. Per render conto di questa differenza l’asse esplicativo del genere risulta inadeguato ai fini di un’analisi più capillare, che prenda in considerazione un fattore strutturante che influenza ed amplifica i dislivelli generati dagli altri assi come il gender o le differenze culturali: la povertà.
Nel caso della fistola ostetrica è la miseria materiale, più di ogni altro elemento, ad incidere pesantemente sul rischio di sviluppare questa patologia. Infatti, la povertà implica malnutrizione e questa, a sua volta, comporta un arresto nello sviluppo fisico di chi ne è colpito o ne compromette il suo pieno raggiungimento. Essendo, dunque, malnutrite e fisicamente sottosviluppate le vittime di fistola ostetrica andranno più frequentemente incontro a gravidanze problematiche, con lunghi e sofferti travagli che le espongono, insieme al loro bambino, al rischio di morte o di gravi e permanenti disabilità. Tra queste, la fistola ostetrica è sicuramente la più debilitante e la più devastante sia per i danni fisici (le donne affette da fistola diventano incontinenti, hanno forti bruciori, rischiano infezioni mortali e sviluppano spesso immobilità agli arti inferiori), che per le ripercussioni in ambito sociale. Infatti, queste donne vengono emarginate ed ostracizzate dalla famiglia, dal marito e dalla comunità a causa dei cattivi odori che emano e per la forte messa in discussione dell’assetto normativo locale che questa malattia genera.
Come cercherò di dimostrare verso la fine dell’elaborato, oltre alle motivazioni appena suggerite, a contribuire all’emarginazione delle vittime di fistola ostetrica sarà anche un particolare tipo di retoriche intraprese dagli organismi che lavorano nel campo della salute, siano essi locali, nazionali o internazionali, governativi o non governativi. In tutti i casi, infatti, l’accento è sempre posto sulla cultura, una cultura “sbagliata”, “arretrata” che attraverso la persistenza d’istituti culturali come l’early marriage lede l’integrità psicofisica e morale della donna etiope.
Nel primo capitolo viene presentata l’Etiopia nei suoi aspetti geomorfologici e climatici. Il Paese presenta una grande varietà di ambienti: dagli aspri rilievi montuosi si arriva alle inospitali depressioni (come quella dancala, che raggiunge i -125 m sul livello del mare), passando per un altopiano centrale, di altitudine variabile, che domina il paesaggio. Accanto alla ricchezza paesaggistica troviamo una grande varietà climatica, influenzata principalmente dalla conformazione morfologica del Paese più che dalla sua posizione a cavallo dell’Equatore. Nelle zone più alte i climi sono abbastanza rigidi e si stemperano negli altipiani di mezza altezza per arrivare alle temperature calde o addirittura torride delle zone desertiche e depresse. La differenziazione geografica e climatica interna ha influito, fin dalle origini dei primi insediamenti umani, sull’organizzazione sociale dei vari gruppi e sulla loro specificità linguistica. Infatti, l’eterogeneità degli aspetti geografici ha reso l’Etiopia un “mosaico di popoli”, per usare l’espressione con cui lo storico italiano Carlo Conti Rossini (1928) l’ha definita, cui si accompagna un’inevitabile varietà di lingue parlate.
Infine, il carattere variegato della realtà etiope è stato accentuato dalla posizione geografica: sorgendo quasi a cavallo tra due continenti, l’area è stata per lungo tempo crocevia di scambi e contatti di tipo commerciale, culturale e politico. Calchi Novati (1994) ha individuato tre principali fonti di influenza, quella africana a ovest, quella semitica a est e quella mediterranea ed ellenistica a nord, le cui eredità sono tuttora ravvisabili a livello locale e sono parte integrante delle realtà sociali, culturali, religiose ed artistiche dell’Etiopia.
Accanto agli aspetti geografici e demografici, sono analizzate brevemente anche le tappe storiche che hanno segnato la vita politica e culturale del Paese: dalla nascita del regno di Axum alla sua decadenza, dovuta alle pressioni islamiche che si accentuarono a partire dal Trecento e che vennero placate solo nel XVI secolo, con il conseguente indebolimento dello stato etiope e dei sultanati musulmani; dal periodo dell’ “età dei giudici” (XVI-XVII secolo), caratterizzato dalla disgregazione politica, all’inizio dell’età moderna con Tewdros II, che ricompose l’unità statale centralizzando il potere nelle sue mani e apportando riforme che dessero un aspetto moderno all’Impero; dal regno di Yohannes IV a quello di Menelik II che fu riconosciuto “Re dei re” sul finire dell’Ottocento e che vide il suo potere minacciato dalle mire espansionistiche dell’Italia, che in quegli anni iniziava il suo progetto coloniale; dall’intronizzazione di Haile Selassie nel 1930, che stilò la prima Costituzione della storia d’Etiopia, alla parentesi coloniale, fino alla deposizione dell’Imperatore il 12 settembre del 1974, con la quale si concluse definitivamente la tradizione monarchica; dal regime militare del Derg ai fronti di liberazione nazionale, fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui la strada per una reale democrazia è ancora lontana.
Una ricognizione degli aspetti storici e sociali che caratterizzano ogni società e ogni Paese è di estrema importanza per evitare che ciò di cui si parla risulti situato in un luogo e in un tempo lontani, a-storico e quasi inesistente. Soprattutto quando si ha a che fare e si cerca di spiegare le cause della sofferenza umana, un’analisi storicamente profonda si configura come un metodo d’indagine imprescindibile. Infatti, vedremo come le vicende politiche, la continua instabilità del Paese abbiano giocato un ruolo fondamentale nel limitare lo sviluppo di una società strutturalmente equa e materialmente sviluppata. La carenza di risorse materiali, la loro ineguale distribuzione sul territorio e tra le fasce della popolazione, l’estrema povertà che affligge oltre la metà dei cittadini, ha delle ripercussioni negative nell’esporre i soggetti alle più svariate forme di sofferenza, tra cui la fistola ostetrica.
Nel secondo capitolo vengono esplicitati i metodi della ricerca sul campo che ha visto coinvolta principalmente la città di Mekelle, capitale del Tigray, alcuni piccoli villaggi intorno alla capitale tigrina (Adigudum, Agula e Debri) e la città di Addis Abeba. Inoltre, l’indagine ha interessato soggetti eterogenei, che sono stati individuati, di volta in volta, nel corso della ricerca: le donne vittime di fistola ostetrica (incontrate quasi esclusivamente nel Fistula Hospital di Mekelle e in quello di Addis Abeba), le levatrici tradizionali (le traditional birth attendants), i guaritori tradizionali, gli operatori sanitari del campo biomedico e gli esponenti di ONG e di organizzazioni governative che gestiscono le politiche e gli interventi sociali.
Viene anche intrapresa un’analisi del concetto di “campo” che nella descrizione fatta da Piasere (2002) è un luogo in cui si verifica una “curvatura dell’esperienza”, cioè un luogo in cui “l’etnografo ‘curva’ il proprio spazio tempo, la propria vita, per andare a co-costruire esperienze con persone che non fanno parte della sua giornata normale”. È, dunque, un esperimento quello che l’antropologo fa sul campo: un “esperimento di esperienza”, che come tale comporta che “l’etnografo, quasi come una spugna, s’impregna di esperienze altrui, di schemi altrui, di analogie altrui, di emozioni altrui, di posture altrui” (ibidem).
Questa impregnazione è la base della conoscenza, una conoscenza ottenuta osservando mentre si partecipa al “gioco” dell’interazione quotidiana, in cui il ricercatore e il “ricercato” contribuiscono insieme a creare l’oggetto d’indagine. In qualità di esperimento (di esperienza) la ricerca sul campo, che conduce all’altro correlato esperimento che è quello della scrittura di un testo etnografico (tenendo presente che i due momenti si auto costruiscono circolarmente), ha i suoi strumenti. Questi ultimi sono principalmente strumenti che implicano l’uso della scrittura, una scrittura preliminare, fugace a volte evanescente, ma pur sempre strumenti scritti che servono a dar rigore e validità scientifica al lavoro dell’etnografo, poiché rispecchiano una metodologia disciplinare consolidata e ritenuta valida per l’indagine etnografica. Infatti, benché l’avere a che fare con i fatti della vita umana possa sfuggire ad una codificazione scientifica delle categorie entro le quali poterli racchiudere, e per quanto ogni storia ha un carattere eversivo rispetto alle regole e alle logiche del linguaggio, la ricerca antropologica non equivale a scrivere un romanzo.
Quello di cui si racconta non sono fatti di fantasia, ma interpretazioni e ricostruzioni intersoggetive esperite nel contatto vis à vis e tenute insieme da una serie di strumenti analitici e da impalcature teoriche. Per tali ragioni, in questo capitolo metodologico descrivo anche l’orizzonte teorico che struttura la ricerca antropologica e gli strumenti tecnici di cui si serve l’antropologo, che hanno costituito anche il mio armamentario pratico: note estemporanee, note di campo, lettere, diari, interviste e tecniche di sbobinatura. In particolar modo, le interviste costituiscono un nodo pratico e teorico di grande importanza per chi fa ricerca e anche una questione difficile da gestire, sia per la peculiare carica di drammaticità che ogni storia raccolta racchiude, sia per il rapporto con gli interpreti. Per questo verrà analizzata la relazione con le “fonti umane” (gli informatori) e con gli interpreti.
Con i capitoli III, IV e V si entra nel vivo dell’analisi dei dati etnografici.
Nel terzo capitolo, viene affrontato un percorso di “risignificazione” della malattia. A partire dalla definizione biomedica di fistola ostetrica, in cui l’attenzione è posta esclusivamente sulle disfunzioni biologiche dell’organismo, inteso come essere oggettivamente osservabile, si passa ad analizzare le concezioni e le spiegazioni causative fornite dagli operatori di cura tradizionali. Emergerà un universo variegato d’interpretazioni e di azioni in cui, accanto allo sguardo clinico della medicina ufficiale (la biomedicina) che opera una riduzione della patologia all’ambito biologico, convivono costruzioni e classificazioni del problema che attingono ad altri ordini causativi. I diversi livelli s’intersecano a vicenda, come avviene in ogni contesto di pluralismo medico, producendo una visione complessa della malattia che rivela tutto il suo carattere di realtà socialmente costruita. Inoltre, dalle interpretazioni dei guaritori tradizionali e delle levatrici tradizionali (le Traditional Birth Attendants), affioreranno delle metafore che riguardano la concezione dell’individuo all’interno del contesto locale e del corpo femminile nei suoi aspetti di salute e malattia.
Queste metafore ci offrono lo spunto per introdurre il IV capitolo, dove il corpo e le sue concettualizzazioni saranno i protagonisti di due discorsi sulla malattia, strettamente intrecciati tra di loro: da un lato, la peculiare idea di sé, di persona, di corpo che ogni società elabora, incide in maniera decisiva nel decretare un soggetto in salute o in malattia e nell’indicare le terapie atte a ripristinare uno stato di benessere socialmente accettabile e nel valutarne l’efficacia; dall’atro, il corpo diventa il soggetto/oggetto di un processo di costruzione sociale in cui s’iscrivono le contraddizioni di assetti comunitari ineguali. La malattia, allora, apparirà come una conseguenza dell’incorporazione delle simbologie disparitarie di gender, e il genere come uno degli assi attraverso cui si materializza il malessere. Tuttavia, le ragioni di una malattia, specialmente quando essa riguarda solo un particolare target della popolazione, non possono essere limitate alla valutazione degli aspetti culturali. Le motivazioni vanno ricondotte alle più ampie dimensioni storiche, politiche ed economiche che caratterizzano ogni esperienza forte di malessere, dalla sua insorgenza fino al suo decorso. Poiché la malattia in analisi, affligge esclusivamente i paesi in via di sviluppo e, all’interno di essi, solo le fasce più povere della popolazione femminile, limitare lo studio della fistola agli aspetti culturali potrebbe risultare fuorviante quanto un’analisi esclusivamente biomedica, dalla quale si è cercato di prendere subito le distanze.
Nel V capitolo, pertanto, sarà affrontata l’analisi degli aspetti materiali che, avendo una distribuzione limitata e ineguale all’interno del Paese, condizionano, più dei fattori culturali, la capacità dei soggetti di negoziare i termini della propria esistenza e con essi la possibilità di condurre una vita dignitosa e sana, nel senso più ampio del termine. La fistola ostetrica, attraverso le parole e l’analisi delle tappe esistenziali di una delle sue vittime, apparirà il frutto di una “violenza strutturale” (Farmer, 2003), cioè di un insieme di fattori storici, politici ed economici disequilibrati, connaturati alla struttura della società e da essa riprodotti, che penalizzano ulteriormente le sue vittime, relegandole ai margini della vita sociale. L’analisi di queste forze macro-sociali è fondamentale se non si vuole correre il rischio di “culturalizzare” la sofferenza, come fanno alcuni programmi d’intervento sociale che saranno posti a giudizio critico. Questi, basandosi su una retorica di stampo prettamente occidentale e su quello che Fassin definisce un “ethos compassionevole”, finiscono per trovare nelle “efferate” culture locali un capro espiatorio sul quale convogliare e occultare le implicazioni più profonde di questioni politico-economiche, che plasmano in maniera drammatica la vita di migliaia di persone.
In sostanza, quello che si cercherà di fare nel corso dell’elaborato sarà di restituire alla malattia la pienezza multidimensionale di una complessità insieme esistenziale, sociale, culturale ed economica, al fine di gettare delle piste teoriche che si configurino come un atto di giustizia sociale.