La costruzione culturale del corpo e la critica al dualismo cartesiano
Quando parliamo di corpo (noi occidentali) pensiamo subito a qualcosa di “naturale”, ad un insieme di organi, di tessuti, di fluidi e di processi fisiologici che universalmente caratterizzano il genere umano. In realtà, il corpo è anche e soprattutto un artificio culturale; è un discorso della e sulla cultura che si esplica a partire dalla sua plasmazione sociale. Il corpo pertanto è un prodotto storico che non può essere separato dai campi sociali e dalle forze storiche che intervengono attivamente alla sua definizione.
Secondo la prospettiva antropologica, l’uomo è biologicamente incompleto poiché gli aspetti bio-genetici non sono sufficienti a garantirgli la sopravvivenza. È solo in virtù di quel processo che Francesco Remotti (1996) ha definito di “antropo-poiesi”, messo in atto all’interno di un gruppo sociale, che l’uomo apprende quelle tecniche e quegli strumenti concettuali che gli permettono di orientarsi attivamente nel mondo. Per questi motivi, Margaret Lock e Nancy Scheper-Hughes (1990) sostengono che il corpo non può essere inteso in termini esclusivamente naturali, come un’entità data al di fuori dei suoi processi di produzione sociale e di costruzione culturale: il corpo va, piuttosto, inteso come un prodotto sociale di cui indagare i processi di costruzione. A tal proposito anche Steven Collins (1985)[1] afferma che “se la persona si compone di un corpo (dato universale) bisognoso di “completamento” psicologico e sociale, allora, come aveva intuito Hegel, ogni sua realizzazione completa sarà particolare, soggetta a condizioni – contingenti – di tempo e luogo”.
Se c’è qualcosa di universale nel corpo, dunque, è la sua dipendenza da specifici processi di modellamento culturale che vedono la differenza come elemento irriducibile dell’umanità. Attraverso un’azione antropo-poietica, l’uomo viene culturalmente completato e la sua natura si configura come costitutivamente culturale. In quanto plasmata e modellata dalla cultura, l’idea di corpo e di natura umana differisce a seconda dei contesti storici e nessuna umanità può essere eretta a parametro di giudizio delle altre forme di umanità.
Andare ad analizzare la varietà delle concezioni relative al corpo con le rispettive narrazioni, e gli usi politici, sociali e individuali[2] cui queste concezioni vengono applicate nella pratica è fondamentale per smascherare le pretese naturalizzanti che la cultura opera sugli stati corporei (compresa la malattia) e sul posizionamento sociale degli individui (comprese le forme di subordinazione) e per convalidare altri modi di concepire l’esistenza umana che si discostino dalle tesi della cultura occidentale.
In occidente per troppo tempo si è operata una distinzione tra mente e corpo che non solo è stata eretta quale paradigma delle forme universali di stare al mondo, ma ha influito anche sui processi di salute e malattia e sui modelli di cura possibili, entrando a far parte del modello esplicativo della biomedicina. Nota oggi come dualismo cartesiano, questa distinzione separa la mente dal corpo, lo spirito dalla materia, il reale (cioè il misurabile) dall’irreale. Ma ancora prima di Cartesio, dal quale l’irriducibile dicotomia prende l’appellativo, questo tipo di pensiero materialistico è stato il prodotto dell’epistemologia occidentale che risale fino al tempo di Aristotele e sostanzia la base teorica della prassi clinica ippocratica. È con Cartesio, però, che la dicotomia materiale-immateriale, naturale-sovrannaturale, biologico-sociale ha assunto la sua elaborazione concettuale più chiara. Tuttavia, fu proprio Cartesio ad esprimere per primo l’imbarazzo di quella che lui avvertiva come una contraddizione: quella di una distinzione teoretica che si rivela inadeguata nell’esperienza pratica della vita quotidiana. Non di meno questo dualismo è diventato la matrice più profonda dell’epistemologia occidentale, anticipando anche le contemporanee concezioni biomediche dell’organismo umano. In esse una prospettiva integrata tra mente-corpo-società (una prospettiva che potremmo definire olistica) è completamente esclusa. Il tutto è stato soppiantato dal predominio delle parti e i modi in cui la mente parla attraverso il corpo e la società è iscritta sulla carne dei nostri corpi non ha fondamento epistemologico, come avviene invece in altri contesti culturali.
[1] Collins S., Categorie, concetti o predicamenti? Osservazioni sull’uso della terminologia filosofica in Mauss, in M. Carrithers, S. Collins, S. Lukes (1985) (a cura di), Della persona. Antropologia, filosofia, storia, Cambridge University Press.
[2] Individuale, sociale e politico sono tre declinazioni con le quali le antropologhe mediche M.Lock e N. Scheper-Huges hanno suddiviso l’analisi del corpo. Al primo livello troviamo il corpo individuale, inteso nel senso fenomenologico dell’esperienza del corpo cosciente (body-self); al secondo livello c’è il corpo sociale che rinvia agli usi rappresentativi del corpo in quanto simbolo naturale con il quale pensare la natura, la società, la cultura; al terzo livello troviamo il corpo politico, che fa riferimento alla regolamentazione, alla sorveglianza e al controllo dei corpi (individuali e sociali) in relazione alla produzione, alla sessualità, al lavoro e alla malattia. I tre livelli d’analisi non sono separati tra di loro, al contrario i tre corpi si costituiscono e si alimentano nell’interazione vicendevole delle loro caratteristiche.