La critica alle retoriche sociali messe in atto sul problema della fistola ostetrica e la sua iscrizione all’interno del concetto di violenza strutturale

Accanto alle motivazioni marginalizzanti appena descritte, che operano una vera e propria cesura delle donne vittime di fistola ostetrica, vorrei finalmente porre sotto analisi quella retorica causazionale dell’early marriage e del conseguente parto prematuro portata avanti contemporaneamente da più istituzioni, ai cui risvolti negativi si è solo accennato senza addurvi una congrua giustificazione. Innanzitutto, vorrei precisare che le campagne contro l’early marriage non sono incentrate principalmente su un concetto di giustizia che assegna alle donne il riconoscimento di un potere decisionale autonomo da quello delle logiche sociali ed economiche che sorreggono l’istituzione del matrimonio in Africa. Quando chiedo qual è l’età “giusta” per contrarre l’unione matrimoniale, tutti, senza esitazioni, mi rispondono che la legge l’ha fissata a diciotto anni, rifacendosi ad un concetto di giusto che per le ragazze ancora una volta implica la decisione di un ordinamento, questa volta quello giuridico moderno e non più quello tradizionale, e non la presa in considerazione di un desiderio personale. Qualora venga anche addotta la rivendicazione di una donna portatrice di pari diritti ed opportunità rispetto all’universo maschile, questa visione rispecchia principalmente un concetto del tutto particolare di donna che è quello della cultura occidentale, plasmato da anni di lotte femministe per l’emancipazione del mondo femminile. Questo specifico modello di donna, applicato nel contesto africano in generale e in quello etiope in particolare, mi sembra del tutto avulso dal peculiare ambiente storico-culturale nel quale si inserisce, dove le opportunità tanto reclamate restano solo un miraggio allettante, che non può essere soddisfatto a causa della mancanza materiale di possibilità concrete. Infatti, come ho più volte sottolineato nel corso dell’intero capitolo e come il caso di Abeba ha concretamente reso visibile, l’elevazione verso una condizione dignitosa di vita, la possibilità di negoziare i termini della propria esistenza, l’opportunità di preservare uno stato di salute inteso nel senso più ampio del termine e di sottrarsi al rischio di esporsi a particolari forme di malessere, vengono annullate da fattori che sono tanto contingenti quanto storicamente profondi ed hanno a che fare con violente politiche di disequilibri di potere e di distribuzione sbilanciata di risorse. Nel sostenere ciò, non vorrei dare un’immagine stereotipata della donna etiope, intrappolata nella polverosità del suo villaggio, sottoposta alla logica del maschio dominante e immune da qualsiasi cambiamento storico, come se la sua condizione fosse un fatto naturale governato da leggi fisse piuttosto che un processo storico sottoposto alla contingenza e alla dinamicità delle relazioni sempre in fieri, proprie di ogni assetto umano. Tantomeno vorrei far passare un messaggio che si appella alla logica del relativismo culturale per giustificare la loro condizione come un fatto di cultura e come tale da rispettare. Vorrei solo mettere in risalto i limiti di determinate politiche umanitarie che, pur nella bontà degli intenti, restano decontestualizzate rispetto alla particolarità di determinate forze politico-economiche che strutturano la vita di milioni di persone, esponendole al rischio delle più svariate forme di sofferenza, ben al di là dell’azione performativa della cultura. Al contrario, quest’ultima è il focus degli aiuti umanitari e delle politiche locali influenzate da una visione extralocale, per le quali la tradizione rappresenta un ostacolo al pieno godimento dei diritti umani, da condannare ed eliminare per raggiungere un più elevato grado di “umanità”.

Questo tipo di retoriche ricalca da vicino l’atteggiamento colonialista che fin troppo spesso l’occidente ha adottato nei confronti delle culture “altre” per ricondurre entro la “norma” (quella della cultura occidentale) lo scandalo di modi differenti di stare al mondo e riconfermare il proprio modello come lo stadio più evoluto di umanità. A tal proposito Leslie Butt (2002) ha sviluppato delle riflessioni critiche, tese a mettere in luce come certe iniziative sanitarie intraprese da organizzazioni umanitarie, siano improntate ad un problematico universalismo che prescinde dalla considerazione del punto di vista degli attori sociali circa la propria realtà. Secondo l’autrice, nel parlare della promozione dei diritti degli svantaggiati si maschera l’assenza di una sfera pubblica internazionale in cui le voci di queste persone possano trovare legittimità ed essere udite (se non ascoltate).

È giusto condannare le forme di violenza e di sfruttamento cui, a tutte le latitudini del mondo sono sottoposte le donne, ed è doveroso impegnarsi in una loro valorizzazione e un loro empowerment. Tuttavia credo che questo debba essere fatto attraverso un riequilibrio delle priorità che tenga conto delle specificità di vita concrete, frutto di particolari processi storico-politici ed economici. Se ci limitassimo ad invocare le linee guida di un discorso aprioristico e decontestualizzato, finiremmo per costruire un tetto nuovo su delle fondamenta marce e l’immagine sarebbe alquanto grottesca e con il pericolo di travolgerci tutti quanti.

Inoltre, l’attenzione esclusiva sulle pratiche culturali quali l’early marriage e l’idea che il modo migliore di procedere alla prevenzione della fistola ostetrica sia quella di fornire una corretta informazione circa la sua natura e le cause, in modo da generare un mutamento comportamentale, poggia su un modello razionalistico dell’azione umana che privilegia il livello individuale: il comportamento non sarebbe altro che il risultato di un calcolo costi/benefici che, una volta fornita la corretta informazione porterà i soggetti interessati ad agire in modo adeguato (Quaranta, 2010). Adottando l’approccio cognitivo-comportamentale il problema della fistola ostetrica diventa una questione radicata nella cultura locale. L’effetto sarà, allora, quello di produrre una visione culturalista del problema, figlia di uno strisciante retaggio neocoloniale. Questa visione non solo tende ad individualizzare i processi sociali della malattia (depoliticizzandoli), ma offusca anche le reali dinamiche (non solo individuali ma anche collettive; non solo culturali ma anche economiche, sociali e politiche) che producono contesti di rischio. Ascrivendo quest’ultimo alle scorrette idee ed azioni degli attori sociali, tale approccio, da un lato, produce una visione della cultura locale come essa stessa fattore di rischio, dall’altro è strutturalmente destinato a non cogliere le decisive forze socio-economiche e politiche, tanto locali quanto globali, che fanno da contesto all’azione individuale (ibidem).

Le politiche globali alla salute in Africa si sono rivelate spesso fallimentari perché anziché analizzare i sedimentati rapporti storici di dominio e di distribuzione ineguale di risorse (frutto di politiche sbilanciate, depoliticizzate ed interessate a riconfermare i privilegi economici di una limitata parte della popolazione) hanno alimentato il luogo comune che tutti i mali di queste popolazioni derivino da una forza ancestrale radicata nelle forme culturali e in una natura selvaggia che fa ammalare e che costringe le persone a restare vittime della loro inumanità e ignoranza. All’interno di questa cornice di pensiero la malattia si configura come un fatale destino e perde il suo carattere di evento determinato, reversibile ed evitabile.

Agli stereotipi che giustificano l’ethos di certe campagne umanitarie e alla depoliticizzazione che esse operano sui processi di salute e malattia occorre rispondere con un’etica della giustizia sociale che impegni tutte le istituzioni, a livello globale quanto locale, governativo e non governativo, a tener conto dei molteplici livelli di cui si compone la salute.