La fistola ostetrica come un problema di violenza strutturale

La malattia è un fenomeno molto più complesso di quanto sembri: è una rete di relazioni diseguali che strutturalmente genera la sofferenza, è ciò che Paul Farmer (2003) definisce “violenza strutturale”. Con questo concetto l’antropologo medico intende definire quel processo d’incorporazione delle dinamiche diseguali dei rapporti strutturali entro cui il soggetto è costretto a vivere la sua esistenza. La violenza strutturale, pertanto, è radicata nei processi storici e politici di ogni popolo ed è un fattore imprescindibile se si vogliono comprendere e risolvere le cause che determinano la sofferenza e la malattia.

L’esperienza vissuta della fistola ostetrica corrisponde ad un’incorporazione del malessere e della violenza che è dovuta, prima ancora che a elementi culturali, a fattori economici, sociali e politici: il corpo delle vittime si qualifica come un mediatore tra il sé e la società e come il luogo di rappresentazione di forze sociali non paritarie.

La violenza strutturale non solo genera le condizioni sociali della sofferenza, ma di fatto limita la capacità d’azione dei soggetti. Come abbiamo visto dalla storia di Abeba, la vita della ragazza è condizionata dallo status sociale in cui è inserita (donna, povera, malnutrita, analfabeta e successivamente malata) che annulla la “capacitazione[1]” del soggetto di scegliere liberamente i tratti della propria esistenza. La sua vita è presa dentro un “campo di forze”[2] che plasma in negativo tutte le tappe del proprio vissuto, fino a condizionarne la malattia e le possibilità di cura.

Per i motivi suddetti, la politica retorica del matrimonio precoce quale causa principale dell’insorgenza della fistola ostetrica mi sembra una strategia artificiosa, tesa a trovare un capro espiatorio sul quale convogliare e occultare le implicazioni più profonde di questioni politico-economiche che plasmano in maniera drammatica la vita di migliaia di persone.

L’approccio umanitario di molte istituzioni che si fanno carico delle questioni legate alla salute cade nella contraddizione di depoliticizzare i fattori concernenti il benessere psico-fisico e sociale dei soggetti, tralasciando le implicazioni legate alla violenza strutturale. Per questo stesso motivo esse risultano fallimentari, poiché si indirizzano verso un obiettivo errato che riproduce i disequilibri esistenti. Se non ci si rende conto che la malattia e l’aumento delle disuguaglianze[3] nel mondo è un problema strutturale, difficilmente queste forme di malessere potranno entrare a far parte di agende politiche, che hanno come obiettivo una reale promozione della salute per tutti. Secondo Fassin (2010), al contrario, questi programmi sono spesso portatori di un ethos compassionevole: anziché indirizzare gli sforzi di policy adeguati, gli attori istituzionali coinvolti rinunciano a pensare la disuguaglianza come soggetta a possibili cambiamenti, concentrandosi su piani di sviluppo sanitario poco dissimili dalla filantropia. La conseguenza di questa operazione demistificante non risiede solo nel “reato” di occultare e riprodurre i rapporti di potere che limitano e condizionano l’esistenza di un gruppo ben circoscrivibile di persone, nel nostro caso le donne povere, analfabete, malnutrite, residenti nelle zone più remote del paese dove la ripartizione di risorse basilari alla dignità della vita sembra aver saltato il suo turno di ridistribuzione. Il “reato” è anche quello, secondo la mia tesi, di contribuire ad una loro ulteriore stigmatizzazione e marginalizzazione. Infatti, se da una parte si è cercato, con la retorica dell’early marriage, di sottrarre la malattia al dominio organicistico, dall’altro la si è imbrigliata in una questione puramente culturale, i cui aspetti sono stati demonizzati e sottoposti a debellamento, quasi fossero una patologia che ha afflitto l’intero corpo sociale.

Fassin (1992) sostiene che:

«La malattia costituisce un rivelatore privilegiato del sociale. Privilegiato, perché la malattia, dal momento che fa intravedere la morte, ha in tutte le società una triplice iscrizione: fisica, attraverso la sofferenza e il degrado dell’individuo; culturale, nelle interpretazioni e nelle pratiche che rende necessarie; morale, per la lotta che si innesca tra il bene e il male”. Fenomeno biologico, in qualche modo naturale, e anche fatto sociale».

In qualità di fatto sociale, la malattia materializza e rende visibile, attraverso l’iscrizione corporea, le tensioni e le contraddizioni di ogni assetto sociale che, pertanto, si rende vulnerabile. Quando poi le minacce non provengono solo dall’interno, anzi diventano i catalizzatori di pericoli che irrompono dall’esterno, da un mondo altro che impone le sue logiche e i suoi assetti istituzionali, la reazione più ovvia è difendersi ad ogni costo. Questo, tradotto nel caso delle donne affette da fistola ostetrica, significa la censura dei loro vissuti esperienziali. Infatti, se la loro presenza è il segno di pratiche culturali dannose, discendenti da una cultura efferata e maschilista, o se ne mettono in discussione i presupposti che la generano (dunque si opera una critica alle istituzioni culturali che organizzano la comunità) o si eliminano le forme di “dissenso”. Secondo la mia personale ricostruzione del fenomeno della fistola ostetrica, la sorte delle sue vittime è caratterizzata da quest’ultimo destino. Dunque, con questo tipo di approccio non solo si lasciano inoccultate le condizioni che riproducono i rapporti di forza, ma si crea un’ulteriore forza che censura i vissuti esperienziali di quanti vivono già ai margini di un mondo fortemente ineguale.

Inoltre, se il problema risiede esclusivamente nelle simbologie e negli istituti culturali allora, data l’ineguale distribuzione del problema tra la popolazione femminile etiope, dovremmo concludere che all’interno di uno stesso paese, a poche decine di kilometri di distanza, esistono due culture: una buona e una cattiva, una che salva e un’altra che fa ammalare. Certamente le culture non sono blocchi monolitici, monocromatici e immobili; al suo interno ci sono differenze che però si caratterizzano soprattutto per il peso di forze macro-sociali non paritarie.

Ciò che ho cercato di sostenere in questo lavoro è che “la povertà, dunque, rappresenta il rischio maggiore, la radice da cui si diramano tutta una serie di altri rischi che vengono ad essere declinati lungo tutti quegli assi in cui si materializzano le disuguaglianze socio-economiche e di potere […]” (Quaranta, 2006c). E’ fuori dubbio che ogni esperienza di malattia sia culturalmente organizzata in base a specifiche forme storiche e personali di sapere. La malattia, infatti, è un evento sociale, oltre che individuale, che coinvolge differenti figure (il soggetto malato, la famiglia, il parentado, i terapeuti, le istituzioni sanitarie) a diversi livelli di competenza ed efficacia. Tuttavia, la malattia è inserita in un contesto storico-sociale che oltre a fornire la struttura simbolica entro la quale poter pensare e fronteggiare gli eventi di salute e malattia, è esso stesso plasmato da forze ecologiche, politiche ed economiche che a certi livelli di violenza e di deprivazione condizionano in maniera negativa il benessere psicofisico dei soggetti, il rischio di incorrere in determinate forme di sofferenza e la possibilità di porvi rimedio.

La vulnerabilità o rischio non vanno visti come caratteristiche essenziali di un qualche gruppo sociale o come effetto di specifiche pratiche culturali, quanto piuttosto come processi sociali che materializzano ampie forze economiche e politiche in patologie. Ridurre lo studio della fistola ostetrica alle sue sole dimensioni culturali rischia di offuscare i più ampi processi politico-economici che hanno un ruolo fondamentale nell’organizzare l’esposizione delle sue vittime al pericolo di sviluppare tale patologia e nel plasmare l’accesso alle terapie. Quaranta (2006c) sostiene che bisogna bilanciare lo studio dei locali sistemi simbolici con un’attenzione di pari peso per i fattori sociali, economici e politici che entrano in gioco nella costruzione del rischio e nella (mancanza di) cura dell’afflizione.

«Quell’insieme di fenomeni – salute, medicina, politiche sanitarie, cura, malattia – che hanno a che fare con il benessere (o la sofferenza) bio-psico-fisica dell’essere umano, non possono essere intesi né a livello concettuale né a livello pratico come separati dall’insieme più ampio delle dinamiche sociopolitiche e dei rapporti di forza e di potere in cui sono “immerse”» (ibidem).

Volendo spingersi ancora oltre possiamo affermare che:

«I fenomeni correlati alla salute sono intrinsecamente connessi con il potere e i rapporti di forza: la salute di conseguenza, oltre ad essere una questione di ordine biologico (e quindi tecnico) è un processo politico (quindi sociale). In tal senso le pratiche relative alla salute – e soprattutto alle disfunzioni legate alla salute, le malattie, necessitano di soluzioni non solo di ordine medico-sanitario ma anche, e forse soprattutto, di ordine politico-sociale» (ibidem).

In questo senso, un’analisi antropologica tesa ad indagare le forze micro e macro sociali che concorrono a creare ineguali opportunità di esistenza e di benessere è costretta a rivedere i propri strumenti analitici. Altrimenti, lo studio antropologico corre il rischio di ridurre ineguaglianza e povertà, frutto di lunghi processi storici ormai naturalizzati, a forme di differenza culturale.

«La lezione che ci offre il concetto di violenza strutturale sta nella consapevolezza che è la posizione strutturale, appunto (di un individuo, di un gruppo, di una popolazione), a costituire un fattore di rischio. L’analisi deve pertanto occuparsi di indagare quei meccanismi attraverso cui forze sociali quali povertà, ineguaglianza, razzismo, differenze di genere, migrazione, eredità coloniale, politiche sanitarie, programmi di aggiustamento strutturale, oppressione politica, esclusione sociale ecc. vengono ad essere incorporati come eventi biologici. In altre parole si tratta di indagare la malattia come processo sociale» (ibidem).

La storia di Abeba fin qui delineata ci fornisce un esempio drammatico eppur concreto, comune a migliaia di donne, di come le possibilità di negoziare i termini della propria esistenza siano stati drasticamente ridotti, se non annullati, da una condizione di indigenza materiale che l’ha privata anche del più basilare diritto alla dignità umana e al benessere psicofisico.

Quando la malattia viene interpretata come un processo sociale e la sua esperienza e i dispositivi della sua costruzione vengono sottoposti ad analisi critica, la sofferenza non rappresenta più semplicemente un’esperienza individuale legata alle contingenze della vita. Questa esperienza, al contrario, emerge come attivamente creata e distribuita dall’ordine sociale. Le esperienze di sofferenza, sebbene radicate nei corpi individuali, rappresentano il marchio della società sui corpi dei suoi membri. I segni di malattia divengono così metonimie di più ampi processi socio-politici, collocando l’esperienza di sofferenza in una dimensione storica profonda e complessa. Riconoscere il carattere sociale delle malattie significa anche ripensare nuovi approcci d’intervento per la loro risoluzione. Quaranta (2006c) infatti afferma:

«Una volta che la malattia viene concepita come un processo sociale è evidente come anche il tema dell’intervento viene a essere riproblematizzato: non più nei termini di mero trattamento farmacologico, ma di diritto di accesso a esso; non più nei termini di modificazione del comportamento individuale, ma di aumentata capacità di negoziazione e di azione dei singoli (empowerment) attraverso la promozione dei loro diritti, non solo civili, ma anche sociali ed economici».

Per combattere le malattie è necessario risolvere le contraddizioni storiche che hanno determinato le relazioni diseguali tra aree del mondo e popolazioni. Questo si ottiene indagando le differenze economiche e sociali in nome di una più generale giustizia sociale. L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) a tal proposito scrive:

«Le condizioni in cui le persone vivono e muoiono sono, rispettivamente, plasmate da forze politiche, sociali ed economiche pertanto la giustizia sociale è una questione di vita o di morte. […] Il fatto che molte persone vivono con molto e altre con poco; che alcune godano di condizioni di vita confortevoli mentre altre in condizioni brutali, non è un fatto di natura. Queste condizioni sono create da profondi processi sociali strutturali, prodotti di politiche che tollerano o, addirittura, rinforzano la disuguale distribuzione di potere, ricchezza e altre risorse sociali»[4].

Se le cose stanno così, non potremmo che concludere abbracciando definitivamente le parole di Paul Farmer quando afferma che “se la malattia è l’incorporazione di situazioni svantaggiate, limitanti e squilibrate, allora la terapia sarà la promozione di quei diritti”. Una volta che si sono illuminati i meccanismi attraverso cui specifiche forze sociali vengono incorporate come eventi biologici è su questi meccanismi che l’intervento deve focalizzarsi, potenziando la capacità d’azione dei soggetti attraverso la promozione dei loro diritti, non solo civili e politici, ma principalmente economici e sociali.

Credo che la terapia migliore per tutte le donne affette da fistola ostetrica e di tutte coloro potenzialmente a rischio, non sia quella di ottenere il rispetto dell’età legale al matrimonio. Penso piuttosto che il modo più “sano” per salvaguardare il loro benessere sia quello di fornirle gli strumenti sociali ed economici che potenzierebbero la loro condizione di essere umano (indipendentemente dallo status di genere), dotato di diritti inalienabili, che gli consentirebbero di muoversi liberamente tra il fluire delle opportunità esistenziali.

[1] Il concetto di capacitazione è stato coniato da Farmer (1999; 2003; 2006) per il quale rappresenta il terreno rispetto al quale possiamo cogliere l’intreccio fra esperienza individuale e forze di esclusione sociale. La capacitazione è l’emblema della violenza strutturale, che si fa patologia principalmente limitando la capacità d’azione dei soggetti.

[2] Il concetto di campo di forze venne elaborato da Pierre Bourdieu nel 1972 e con esso si intende una rete di relazioni e di rapporti di forza che stabiliscono le regole entro cui si muove l’attore sociale. La posizione occupata dall’individuo all’interno di questa rete determinerà la sua, più o meno ampia, libertà di scelta. Infatti, il campo è strutturato su basi diseguali che concedono diseguali possibilità di negoziare le proprie azioni e il proprio modo di stare al mondo. In più il campo è condizionato dalla storia e dai rapporti politici: una nazione colonizzata, ad esempio, avrà sedimentato nella contemporaneità dei fattori di disuguaglianza storica che limitano i cittadini nelle loro possibilità di scelta molto di più di una nazione che non ha mai vissuto il fenomeno del colonialismo.

[3] A proposito dell’aumento delle disuguaglianze nel mondo, a dispetto d’iniziative globali che tentano di limitare il gap socio-economico, il tasso di mortalità e l’aspettativa di vita tra i paesi del mondo, l’annuale rapporto dell’OMS relativo all’anno 2008 ha dovuto registrare un completo fallimento nelle politiche sanitarie ed umanitarie che operano in nome di una maggiore equità. Nel testo infatti si legge che se nel complesso il progresso in salute nel mondo è stato considerevole, portando ad una significativa riduzione dei decessi a livello mondiale, questi dati mostrano un forte squilibrio tra paesi ricchi e paesi poveri dove il tasso di mortalità è ancora elevatissimo, l’aspettativa di vita alla nascita è più bassa di oltre vent’anni e il differenziale di reddito tra il quinto della popolazione mondiale più povera e il quinto più ricco ha raggiunto il suo massimo storico. Queste differenze sono dovute a ciò che l’Organizzazione ha definito le “Determinanti Sociali di Salute” e che riconducono la malattia a molteplici fattori di ordine strutturale, la cui indagine ha portato alla redazione del rapporto Closing the gap in a generation (2008) nella cui introduzione si legge: “La giustizia sociale è una questione di vita o di morte. Influisce sulle condizioni di vita delle persone, sul conseguente rischio di malattia e di morte prematura. Guardiamo con ammirazione al continuo miglioramento nell’aspettativa di vita e di buona salute in alcune parti del mondo, e con allarme al fallimento del miglioramento in altri. Una bambina che nasce oggi in alcuni paesi ha una aspettativa di vita di 80 anni ed altri inferiore ai 45. Anche all’interno degli stati ci sono drammatiche differenze di salute, strettamente connesse con il grado di svantaggio sociale a cui le persone sono esposte. Differenze di questa portata, all’interno e tra i paesi, semplicemente non dovrebbero esistere”.

[4] Cit. in Pellecchia U., Rossi P., Zanotelli F. (2010), Introduzione, In Pellecchia U., Zanotelli F. (a cura di) (2010), La cura e il potere. Salute globale, saperi antropologici, azioni di cooperazione sanitaria transnazionale, ed.it., Firenze-Catania.