La metafora della purezza come strategia di controllo
Gran parte delle strategie di disciplinamento del corpo femminile e della sua posizione nello spazio sociale, ruotano intorno ad un’unica metafora che abbiamo visto essere quella della purezza, che si esplica nel controllo e nella chiusura dei suoi orifizi.
Benché non mi sia occupata di mutilazioni genitali, la vicinanza del Tigray (zona in cui si è concentrata la ricerca) con l’Eritrea, paese in cui il tasso di donne sottoposte a mutilazioni è molto elevato, è del tutto plausibile supporre che queste pratiche di addomesticamento siano presenti anche all’interno del mio campo di ricerca[1]. Dopotutto, l’ossessione ricorrente per il controllo dei fluidi e per un corpo che non sia macchiato di segni impuri come il sangue, l’urina, ma anche l’apertura vaginale è ricorrente nelle interviste raccolte. E la purezza di un corpo femminile, il suo essere illibato, è anche alla base dell’istituzione più importante di riproduzione del corpo sociale e dell’economia comunitaria intesa sia in senso materiale che simbolico e relazionale: il matrimonio. È attraverso l’unione matrimoniale che si sancisce definitivamente il ruolo sociale di una donna, il cui valore negli scambi matrimoniali è proporzionato al grado della sua purezza. Un discorso esauriente sul matrimonio verrà affrontato nel capitolo seguente, quando analizzerò le tappe che hanno scandito la vita di una delle rappresentanti delle vittime di fistola ostetrica. Quello che per il momento vorrei sottolineare, in relazione al matrimonio è l’importanza della costruzione di un particolare corpo femminile come presupposto fondamentale per le contrattazioni matrimoniali e per la definizione della socialità della donna. Il matrimonio è considerato l’istituzione cardine verso la quale far convogliare la definizione dei compiti e della posizione spettante alla donna in seno alla comunità.
«Nelle società africane una donna è riconosciuta pienamente tale solo se inseribile negli scambi matrimoniali, cui può accedere con onore solamente se chiusa e, dunque, illibata e pura. La sua purezza, perciò, è il presupposto indispensabile per il buon fine di queste unioni. La futura sposa, infatti, non deve essere una donna qualsiasi bensì una “donna illibata, intatta, vergine, ovvero operata» (Pasquinelli, 2007).
Senza addentrarci nel discorso delle mutilazioni genitali che potrebbero essere oggetto di un’altra tesi di laurea, quello che è funzionale al nostro discorso sono le metafore che ruotano intorno alla costruzione del corpo femminile e alla sua funzione in seno alla società. La sua purezza conferisce alla donna quel valore simbolico per cui viene pagato, come riconoscimento, il bribeprice (il prezzo della sposa) e per la quale può affermarsi la sua piena identificazione come figura sociale dotata di certi diritti e certi doveri. Una volta sposata la sua perdita di purezza verrà comunque compensata con le sue funzioni riproduttive e il suo ruolo domestico, funzioni che sono drasticamente messe in discussione dall’insorgenza della fistola ostetrica.
Infatti, questa malattia comporta la modificazione di quello che è ritenuto essere l’emblema della femminilità: l’utero. Se come avviene spesso anche in altri contesti culturali, la fisiologia corporea e le concezioni anatomiche hanno un peso fondamentale nel definire il genere, l’utero nel nostro caso corrisponde a ciò che più di ogni altra parte definisce l’essere donna. Non è un caso, allora, che la fistola ostetrica, o meglio l’incontinenza di urina viene giustificata come l’utero che “fuoriesce”, che non sta più al suo posto e non può più regolare, come è “naturale” che sia, le funzioni che si connettono alla femminilità. In primo luogo non permette di disciplinare quei fluidi (come l’urina) che sono fonte di imbarazzo, ma anche di impurità e di attrazione per il maligno e per la quale la donna deve essere sottoposta ad un controllo serrato da parte delle altre donne e subire una sorta di quarantena, nel senso che non può accedere ai luoghi e alle funzioni pubbliche nelle quali si esplica la vita comunitaria. Questo controllo e questo isolamento non avvengono solo nel caso in cui la donna abbia subito un “danno” all’utero, ma in tutti quei momenti in cui le sue funzioni fisiologiche (il ciclo mestruale, la gravidanza, il parto) la rendono impura e la fanno percepire come agente ammorbante l’intero corpo sociale. Agendo sugli aspetti fisiologici, dunque, l’ideologia dominante riesce a porre le donne in una condizione di marginalizzazione e d’inaccessibilità agli ambiti pubblici, restringendone l’operato e la produzione di forme eversive di posizionamento sulla scena sociale.
In secondo luogo, “l’utero che va fuori” rende difficili i rapporti sessuali e con essi l’espletamento delle facoltà riproduttive (a volte impedite dalla sterilità prodotta dalla malattia) che dopo il matrimonio garantiscono il perpetramento della donna in seno al nuovo nucleo familiare.
Una donna, allora, è tale quando il suo apparato riproduttivo è manipolato secondo i criteri di chiusura e di purezza che le garantiscono l’inserimento nei circuiti matrimoniali e dunque il riconoscimento e l’espletamento della sua socialità in base al suo ruolo di moglie; ed è riconosciuta donna se il centro della femminilità, il suo utero si trova al “suo posto”, ossia quando presenta quegli aspetti di integrità e di funzionalità che si connettono alle sue funzioni riproduttive. Quest’ultime le garantirebbero il proseguimento del suo ruolo sociale come madre, e con esse la continuazione della vita matrimoniale e quella di una piena esistenza sociale. Inoltre, la fase riproduttiva, la gravidanza, rappresenta anche una parentesi speciale nella vita della donna a riprova dell’alto valore che lo status di madre riveste in seno alla società etiope. Come ha osservato Serena Corrado a proposito dell’importanza di assecondare i desideri e i bisogni di una donna incinta “la posizione della donna durante la gravidanza è molto elevata, le si deve rispetto, è ben accetta e desiderata”, dunque, “sembra che la gravidanza, in un contesto non paritario e piuttosto maschilista come quello tigrino ed etiope in generale, rappresenti per la donna una parentesi in cui la sua funzione è accettata e rispettata, dotandola di diritti e privilegi a cui solitamente non ha accesso.
Sebbene il matrimonio etiope ammetta il divorzio, il concetto fondamentale nel matrimonio consuetudinario è la perpetuità o indissolubilità. Infatti, il termine con cui viene chiamato il matrimonio è “Kal Kidan” che tradotto letteralmente significa “Parola di patto”. Un patto che riguarda gli sposi, ma anche le famiglie. Tuttavia, ci sono situazioni in cui la revoca del matrimonio è legittimata, ed una delle ragioni principali per cui si accetta il divorzio è la sterilità, o comunque l’impossibilità di avere figli. Per un etiope la procreazione della prole è considerata come fine essenziale del matrimonio.
Nel saggio di Cardinal Paulos Tzadua (1985) leggiamo:
«Un detto etiopico delle regioni del nord afferma che non c’è assurdità maggiore nella vita di un monaco di quella di non essere santo una volta che ha scelto la vita monastica ed ugualmente non c’è assurdità maggiore per uno che si sposa di quella di non avere figli una volta che ha scelto la vita matrimoniale».
Moglie e madre, dunque, sono gli aspetti che definiscono l’identità femminile, una definizione in cui il corpo (nella sua concettualizzazione e nel suo controllo) gioca un ruolo fondamentale. Si capisce allora, come le donne malate di fistola ostetrica diventino delle anomalie sociali, prive di significato e di posizione. A tal proposito, Admassu (2000) notava che certe malattie sono delle vere e proprie sentenze sociali e per i motivi appena esposti la fistola ostetrica può essere considerata una di queste.
Se, come abbiamo detto più volte nel corso del capitolo, l’incorporazione indica i modi di stare al mondo con il proprio corpo e le forme attraverso le quali il mondo, inteso come realtà storica, sociale e naturale, penetra nel corpo, allora queste forme di rappresentazione di un corpo “alterato”, di un corpo “disordinato” sono portatrici di figure diverse del corpo, della persona, del genere e del sé rispetto a quello ufficialmente plasmate e riconosciute. Esse, pertanto, devono essere ricondotte alla norma oppure, come succede spesso al corpo delle vittime di fistola ostetrica, censurate. Infatti, il linguaggio del corpo femminile malato di incontinenza è portatore di una trama imprevista e “alternativa” rispetto al discorso ufficiale, che mina i presupposto morali, economici e sociali sul quale quest’ultimo si basa.
Le donne malate di fistola, per la stessa ammissione di molte intervistate, non sono più delle donne, nel significato e nella funzione che questa parola assume nel contesto sociale locale.
“Se hai l’utero fuori non puoi più essere una donna, non puoi più avere relazioni con gli uomini. Vieni esposta ai quattro venti, sei compromessa. Non puoi più avere rapporti sociali con le persone perché puzzi, perché mentre cammini ti perdi la pipì” (Mama Alima).
“Come puoi essere una donna se la tua vagina va fuori. Nessun uomo verrà più con te. Tuo marito ti lascerà per un’altra donna con cui avrà altri bambini e nemmeno la tua famiglia ti vorrà in casa perché puzzi” (Mama Taddelu).
“Le donne che conosco che hanno divorziato è perché non potevano controllare l’urina e avere rapporti con i propri mariti”, dice Eskinder, un guaritore tradizionale, in risposta alla mia domanda se le donne potevano essere rifiutate dai mariti qualora avessero problemi vaginali e se era a conoscenza di qualcuno che aveva divorziato.
“Mio marito mi ha lasciata perché non potevo più controllare l’urina e avere rapporti con lui”, mi risponde Fantaye, una donna malata di fistola ostetrica, quando le chiedo se aveva un marito che la veniva a trovare nell’ospedale in cui era ricoverata.
“Se non riuscirò a guarire allora non potrò tornare a casa da mio marito. Che cosa potrò offrirgli? È meglio che vada lontano e che lui si risposi con una donna che può dargli dei figli”, e dopo un minuto di pausa, con gli occhi lontani dal mio sguardo Tekle (una delle vittime di fistola) aggiunge “se non riuscirò a guarire mi ucciderò”.
“Le donne malate di fistola vengono abbandonate dai mariti che si risposeranno con altre donne con cui fare altri figli. Nessuno si prenderà più cura di loro, vengono abbandonate al loro destino” Afferma Zufan, una giornalista che, da anni, cerca di portare all’attenzione pubblica attraverso i mass media (in particolare la stampa e la radio) la triste realtà cui sono destinate le donne malate di fistola ostetrica.
Le testimonianze appena riportate provengono da soggetti che occupano posizioni diverse all’interno della società e che hanno vissuti esperienziali differenti gli uni dagli altri, ma tutte sono accomunate dalla medesima sentenza finale sull’idea di donna e sull’azione destrutturante della malattia: la donna è una moglie che deve garantire le sue funzioni riproduttive e l’espletamento del suo ruolo di madre. L’allontanamento dalla norma significa l’allontanamento dai circuiti istituzionali che fungono da garanti del riconoscimento sociale e del valore comunitario. Se la società etiope (al pari di ogni altra cultura) replica e socializza sistematicamente il tipo di corpi di cui necessita, in conformità ai bisogni dell’ordine sociale, economico e politico, il corpo malato delle donne affette da fistola ostetrica si discosta da questi bisogni e, pertanto non può più essere riconosciuto parte integrante dell’ordine comunitario. Questa perdita d’investimento simbolico e di riconoscimento sociale, tradotto in termini di vita vissuta significa la perdita di quei diritti sociali ed economici che per la maggior parte delle donne etiopi rappresenta l’unica fonte di sostentamento. Infatti, inquadrando l’identità femminile dentro le strette maglie del matrimonio, della vita domestica e della cura dei bambini, l’ideologia dominante priva le donne della possibilità di affermare la propria posizione e il proprio ruolo secondo altri canali che, ai fini della mia analisi, sono fondamentali per salvaguardare il proprio stato di benessere e per accedere ai servizi sanitari che le garantirebbero la prevenzione o la cura di certe malattie.
[1] A riprova della presenza delle mutilazioni genitali femminili ci sono anche le numerose campagne contro le harmful traditional practices, organizzate a livello governativo e non, che pongono al centro dei discorsi per la salvaguardia del benessere psico-fisico della donna l’opportunità di interrompere queste forme di intervento sul corpo femminile. Quella delle mutilazioni genitali, tuttavia, è solo una delle pratiche dannose, ascritte alla tradizione, che si cerca di combattere. Per meglio classificare e definire le varie pratiche, nel 1987 è nata in Etiopia la National Committee on Traditional Practices (EGLDAM), che fin dalla sua costituzione ha cercato di portare all’attenzione pubblica la numerosità e pervasività di svariati interventi sul corpo o forme di tabù che si rivelano dannose per la popolazione e che colpiscono soprattutto le donne, a riprova del legame tra manipolazione/controllo del corpo e appartenenza di genere. La Commissione, nel Baseline Survey del 1997 rilevava la presenza di oltre 200 differenti tipi di pratiche tradizionali dannose che per comodità sono state racchiuse all’interno di tre gruppi, con le corrispondenti sottodivisioni: quelle relative ai bambini, quelle relative alle donne e quelle che si applicano ad entrambi i sessi.