La percezione della malattia tra gli operatori della salute tradizionale
Accennando nel paragrafo precedente alle sfere in cui uno stato di sofferenza trova le sue logiche esplicative che gli permettono di essere modellata, nominata e fronteggiata, ho fatto riferimento alla categoria che Kleinmann ha definito con l’appellativo di “folk” e che concerne tutte quelle figure che hanno un ruolo attivo nella gestione della malattia non per via di un riconoscimento da parte delle istituzioni di governo, ma grazie ad un approvazione informale da parte della comunità o di un potere forte come la Chiesa Ortodossa. Di questo ambito fanno parte i guaritori tradizionali e le levatrici tradizionali (TBAs), le cui strategie terapeutiche si collocano all’interno di un sapere e di un insieme di pratiche molto variegato. Esso risente dell’interpretazione delle diverse concezioni di salute e malattia che pertengono alle varie risorse di cura disponibili sul territorio.
Per alcuni guaritori il termine “fistola” non è nient’altro che la definizione moderna di malattie che tradizionalmente vengono definite con altre parole quali menkersa e cancer.
Alla mia domanda “hai mai sentito parlare di un problema chiamato fistola vaginale?” un keshi (ossia un prete della Chiesa cristiana ortodossa) intervistato in un villaggio non lontano da Mekelle mi ha risposto:
fistola significa menkersa o cancer e quando diciamo fistola vuol dire che c’è della carne in eccesso, del grasso e se ti operi ti fuoriesce il pus vecchio.
Anche un altro guaritore, Margeta[1] Salomon alla stessa domanda mi fornisce una risposta simile, nel senso che come il terapeuta precedente associa il termine fistola, da lui considerato nuovo, ad una malattia che, tradizionalmente, ha un nome diverso. Egli infatti dice:
la fistola è una sorta di kuntarot, soprattutto se si presenta ripetutamente, ed è una malattia di famiglia. Prima si chiamava kuntarot, mentre adesso ha un suo nuovo nome che è appunto fistola. La differenza tra i due è che la fistola è come il primo stadio del kuntarot che appare prima che la parte interessata si gonfi e si ferisca. Compare nell’ano, sia nei maschi che nelle femmine, ma si diffonde a partire dagli organi sessuali. Nelle donne appare anche nella vagina.
Per lui la fistola, quindi, è solo una nuova denominazione per vecchie malattie che le sue conoscenze terapeutiche sono in grado di curare. Non fa differenza tra la fistola che appare negli uomini e quella che compare nelle donne. Essa è di un’unica tipologia e può essere guarita attraverso un preparato di erbe che deve essere spalmato sulla parte interessata per cinque giorni, anche se già dal secondo si possono vedere dei miglioramenti.
Come si evince da queste due affermazioni, la fistola vaginale non sarebbe nient’altro che il nuovo nome, ripreso dalla medicina moderna, per vecchie malattie che la medicina habesha[2] definisce con termini differenti quali kuntarot, menkersa, cancer[3] e per la quale vengono somministrate le stesse tipologie di medicine che si usano per gli altri problemi. Siamo in presenza di quel processo che Emanuele Bruni (2010) definisce di “vernacolarizzazione” della biomedicina, secondo il quale le nosologie proprie del sistema medico occidentale vengono interpretate, traslate e risignificate in base alla prospettiva locale.
Diversa, invece, è l’interpretazione dell’incontinenza urinaria e di feci (uno dei segni più evidenti della fistola ostetrica) che nella prospettiva dei guaritori tradizionali costituisce un altro problema patologico, differente da quanto loro intendono per fistola vaginale. Qui, però, esistono due tipi d’incontinenza. Nel sentir parlare dell’incapacità femminile di controllare l’urina, la prima reazione che ho incontrato durante le interviste con i terapeuti tradizionali è stata d’imbarazzo, superata inizialmente facendo appello ad un tipo di incontinenza che avviene solo durante la notte mentre la donna sta dormendo.
“Non ho mai sentito di ragazze che non controllano l’urina mentre stanno in piedi, ma solo di persone che urinano mentre dormono perché credono di essere sveglie, gli sembra che sia giorno nei loro sogni e dunque fanno la pipì.” mi dice il Margeta Salomon. Il problema, tuttavia, continua il guaritore, non risiede nel fatto di sognare in maniera così realistica da far percepire a queste donne di essere sveglie e di stare ad urinare come farebbero normalmente durante il giorno, ma si tratta di una malattia.
Ad esempio, se consideriamo noi stessi, il nostro corpo, ci sono molti antagonisti, così è per questo che il problema succede, essi ci fanno sembrare che è giorno mentre stiamo dormendo e questa è una malattia. Mentre stiamo dormendo durante la notte, loro ci mostrano che è giorno e ci fanno urinare di notte.
Questi antagonisti di cui parla il Margeta sono delle forze maligne che appartengono alla sfera spirituale come ad esempio il Buda (il malocchio), l’Ideseb e gli spiriti zar. Queste entità possono attaccare la donna in particolari momenti della giornata (come ad esempio la notte), in precisi luoghi (come le sorgenti d’acqua e le foreste) e durante eventi importanti nella vita di una ragazza, come nel caso del parto. Dopo aver partorito, infatti, si crede che una donna sia particolarmente debole, fisicamente e spiritualmente, e che pertanto debba restare in assoluto riposo, in casa, sotto la stretta osservazione di parenti e vicini. Il suo corpo, oltre a necessitare ristoro per rinvigorirsi, ha bisogno anche di un tempo codificato dalla tradizione per ritrovare il suo “aspetto naturale”, la cui integrità non la esponga all’attacco di forze demoniache. Si crede che la neomamma, proprio per il fatto di aver partorito, presenti delle aperture e dei liquidi in eccedenza che costituiscono i canali di accesso privilegiati dagli agenti maligni. Questi ultimi, attraverso il canale della vagina, il sangue e altri fluidi s’insinuerebbero all’interno della vittima non appena essa viene lasciata sola, causando gravi disturbi sia a livello fisico che comportamentale. Per scongiurare questi pericoli, alla partoriente viene prescritto di restare in casa, sotto la protezione dello sguardo familiare, per un tempo di quaranta giorni nel caso abbia dato alla luce un maschio, di ottanta giorni nel caso abbia partorito una femmina.
“C’è Satana che è il nostro nemico e ci sono gli spiriti zar e dopo che una donna ha partorito è il momento giusto per queste forze di colpirla. Essi possono trovare facilmente una via per entrare perché c’è la fuoriuscita di sangue e di altri fluidi corporei ed è proprio in quel momento che entrano dentro di lei. Iniziano a seguirla (la donna) e quando non c’è nessuno intorno a lei la colpiscono perché in quel momento molte cose sono aperte”, continua a spiegarmi Salomon.
Ci troviamo di fronte ad una categoria eziologica che potremmo definire “umana”, nel senso che viene ascritta all’azione umana nonostante il suo espletamento passi per delle pratiche magiche o attraverso quelli che sono considerati dei poteri innati. Ideseb infatti significa “per mano dell’uomo” e “può essere indotto attraverso l’azione di uno specialista (chiamato tenkwalay o deftera in Tigrinya) che conosce bene sia l’applicazione che la neutralizzazione di una pratica. L’attacco può essere condotto attraverso le preghiere, l’invocazione di Sheyitan (il diavolo) o gli spiriti zar e particolari sostanze che colpiscono il paziente, mentre egli entra in contatto con loro” (E.Bruni, 2010: 84).
Il buda corrisponde al malocchio e consiste in un potere particolare di riuscire a fare ammalare qualcuno con lo sguardo, solitamente attribuito alla casta degli artigiani dei metalli.
Entrambi gli attacchi maligni alterano il comportamento di chi ne è vittima, portandola a compiere gesti inconsulti, facendola cadere in delle crisi alternate di pianto disperato e di risate esagerate senza un apparente motivo, oppure causando un irrigidimento del corpo che in alcuni casi sfocia in delle vere e proprie paralisi degli arti. Salomon mi fa l’esempio di una ragazza di 26 anni che viveva in un villaggio vicino a Mekelle. La giovane donna urinava durante la notte, mentre di giorno aveva un comportamento bizzarro e fuori dal consueto.
Aveva iniziato a comportarsi in modo strano, rideva, si burlava degli altri, rompeva le cose che trovava in casa, si chiudeva a chiave in casa senza permettere a nessuno di entrare. Era stata legata, ma non si erano visti miglioramenti. Hanno chiamato un prete che l’ha lavata facendo un digam preso dalla Bibbia e la situazione sembrava migliorata ma poi peggiorò di nuovo. La ragazza scappò nella foresta. Venne ritrovata, condotta in una maichelot dove iniziò a stare un po’ meglio.
La sua diagnosi è il buda. Tuttavia, continuando con la storia scopro che si è ammalata dopo il parto, come succede a molte donne se vengono lasciate da sole, perché in quel periodo le giovani sono più vulnerabili in quanto alcune parti del loro corpo sono aperte e c’è il sangue che fuoriesce, così come altri liquidi. Per tali ragioni sono più facilmente attaccabili da Satana e dagli zar, che trovano attraverso i fluidi una via per entrare in esse.
Quest’ultima affermazione ci consente di ragionare in via preliminare su due ordini di fattori: l’eziologia della malattia e la concezione del corpo femminile. Affronterò quest’ultimo punto successivamente, poiché quello che mi interessa continuare a spiegare è la cornice teorica delle nosologie e delle eziologie locali della malattia. Quanto emergerà da questo orizzonte di spiegazione degli episodi di malessere, costituirà poi la base per affrontare la costruzione e la percezione del corpo della donna all’interno della società etiope.
Continuando con il problema dell’incontinenza, la storia che mi racconta Salomon introduce un nuovo elemento, il parto, che cambia lo scenario nosologico emerso finora. Infatti, appena il discorso si sposta sul parto e sul matrimonio, ed io provo a capire se c’è una relazione tra questi ultimi e l’incapacità di controllare l’urina in una donna, la diagnosi dei guaritori cambia radicalmente. Alla mia domanda:
“Le donne che si sposano molto giovani possono avere dei problemi nel non riuscire a controllore l’urina?”, il guaritore risponde:
“Si, ci possono essere dei problemi dopo il parto. Questa è una malattia ben conosciuta, così spesso esse (le donne che ne sono affette) vanno in ospedale o nelle cliniche perché potrebbe esserci un’infezione all’utero”.
Secondo il Margeta Salomon (così come per gli altri guaritori che ho intervistato) le cause di questo problema risiederebbero nel matrimonio precoce, cioè quando la ragazza viene data in sposa in giovanissima età[4]. Dunque, essendo troppo giovani non hanno nessuna conoscenza della vita di coppia e di come gestire i rapporti sessuali e d’altronde, aggiunge, “essendo così giovani non hanno bisogno di fare sesso”. Inoltre se l’uomo è troppo grande e la donna troppo piccola, durante la relazione sessuale si può creare una lacerazione nella vagina, nell’ano, ci può essere rottura delle ossa della schiena e può defluire il sangue. Mi dice che se il rapporto sessuale avviene quando la ragazza è ancora in tenera età, qualcosa dentro la vagina viene tagliato in pezzi.
Pur essendo una malattia che il Margeta conosce bene e le cui manifestazioni sono note tra la gente afferma che non esiste un nome specifico per questo tipo di problema. Semplicemente viene chiamato con espressioni quali: “donna lacerata”, “danno all’utero, alla vagina”, “fuoriuscita combinata di urina, feci e sangue”. Prevale, dunque, una nosologia che si base principalmente sulla posizione anatomica del problema e sul sintomo dominante: in questo caso l’incontinenza. Anche il keshi sostiene che forse un nome specifico esiste in inglese, ma in amarico si dice solo mekelakel, che vuol dire mischiato e che rimanda alla combinazione delle sostanze orifiziali definita da altri intervistati.
Ricapitolando il quadro nosologico ed eziologico che è emerso seguendo la prospettiva di un gruppo particolare di attori sociali, i guaritori della tradizione etiope, è emerso che ciò che la biomedicina definisce come “fistola vaginale” nel contesto locale trova una similarità con malattie quali il kuntarot, il cancer e la menkersa, delle escrescenze corporee e delle infezioni che possono comparire per cause eterogenee, che abbracciano sia il piano fisiologico che quello spirituale e normativo.
Altra cosa, invece, è l’incontinenza di urina che nella prospettiva locale viene suddivisa in due malattie differenti, con cause e rimedi diversi. Da un lato, abbiamo la perdita involontaria di urina durante la notte, mentre stiamo dormendo, legata all’attacco di agenti maligni che colpiscono la donna nei periodi in cui è più vulnerabile e la spingono a sognare di essere sveglia e di urinare come farebbe normalmente durante il giorno, in base ai suoi stimoli fisiologici. In questo caso l’eziologia riguarda la sfera spirituale anche se va ad intaccare il piano fisiologico. I rimedi, pertanto, vanno trovati nelle cure proposte dalla medicina tradizionale.
Dall’altro lato, abbiamo l’incontinenza di urine (mischiata a volte con le feci) legata ad un altro ordine di fattori quale il matrimonio precoce e la relativa gravidanza prematura. In questo caso il danno provocato non può essere curato attraverso unguenti, bevande a base di erbe, acqua benedetta e quant’altro propongono la risorse terapeutiche tradizionali, ma occorre l’intervento della medicina “moderna”.
“Se viene da me una donna con questo tipo di problema io non la curo, la mando in ospedale. Loro hanno bisogno di essere riparate ed io non ho le medicine giuste” dice il Margeta Salomon.
Anche il keshi sostiene la stessa inefficacia delle medicine tradizionali e riscontra nella medicina occidentale l’unica possibilità di cura per l’incontinenza causata da gravidanze premature. Egli afferma:
“Questo tipo di malattia non può essere curato con i metodi tradizionali, ma solo in ospedale perché il problema risiede nei tubi interni che possono essere visti e curati solo con l’operazione chirurgica. Da me non vengono per curare questo problema e semmai le manderei in ospedale”.
Ritroviamo in queste parole una modalità di interpretare la malattia che va al di là della sola individuazione delle cause, ma che tiene conto anche della percezione da parte dei soggetti coinvolti dell’efficacia delle terapie. Wondwosen (2006) fu il primo a proporre di tenere conto, nelle visioni che i soggetti hanno dei relativi stati di malattia, della logica della cura, cioè dell’appropriatezza e della scelta della relativa risorsa terapeutica.
Dal nostro caso è apparso che l’incontinenza causata dagli agenti intenzionali appartenenti alla sfera spirituale può essere curata solo attraverso la medicina tradizionale, l’unica in grado di individuare il fattore maligno e di neutralizzare i suoi gravosi effetti con le conoscenze giuste. Al contrario, l’incontinenza determinata da matrimoni precoci e da parti in tenera età può essere risolta solamente con il ricorso alle cure biomediche, poiché il problema si collocherebbe all’interno, in una zona inaccessibile allo sguardo della tradizione.
Questo modo di suddividere le malattie, di interpretarle e di trovare un possibile risanamento facendo appello a saperi diversi, ognuno competente nel suo ambito, potrebbe essere una strategia messa in atto dai professionisti tradizionali (e vedremo poi anche dalle TBAs) per continuare ad occuparsi di problemi come la fistola ostetrica sui quali la moderna medicina rivendica una proprietà esclusiva, forte delle sue conoscenze nettamente superiori in campo chirurgico, ma che rimanda ad un’idea di patologia (come entità fisiologica) e di efficacia terapeutica (ripristino delle “normali” funzioni organicistiche) che non trova riscontro nelle locali concezioni di salute e malattia. Dal momento che le numerose pratiche terapeutiche operate dai guaritori tradizionali non sono state integrate nel sistema di cura ufficiale, probabilmente i terapeuti hanno bisogno di adottare strategie che legittimano il loro ruolo e la loro efficacia curativa. Porre uno stesso problema in due ambiti differenti, uno collocato nella sfera spirituale, l’altro legato al mondo empirico, potrebbe essere una di queste strategie. Dopotutto, ogni atto terapeutico è sempre un confronto di poteri, che si giocano nel più complessivo campo sociopolitico dei rapporti di forza. Questa dimensione sociopolitica è particolarmente evidente nel caso in cui la socializzazione del malessere diventi oggetto di conflitti sociali e politici, come in parte potrebbe essere per la fistola ostetrica, dal momento che la sua elaborazione e il suo risanamento passano attraverso interpretazioni retoriche differenti, le quali lasciano intravedere i diversi interessi in ballo a seconda che si tratti dei soggetti istituzionali o non professionalmente riconosciuti. Sarebbe un discorso interessante da approfondire. Dal momento però che esso pertiene maggiormente a quelle strategie di legittimazione messe in atto dai professionisti della salute all’interno di un sistema medico pluralistico, come quello etiope, in cui diversi orizzonti terapeutici si incontrano, si scontrano e si mescolano per creare quello che D. Fassin definisce “il mercato della salute” (1992: 339-342), esula dalle questioni strettamente connesse con la ricostruzione del quadro nosologico, che è il fulcro di questo capitolo.
Una posizione interessante, che vorrei segnalare a conclusione della costruzione sociale operata dalla tradizione sul problema della fistola ostetrica, è quella di una guaritrice tradizionale donna: Mama Giddei. La donna vive alla periferia di Mekelle e nella wereda[5] la sua famiglia è molto conosciuta e rispettata per le posizioni di prestigio che occupano lei e suo marito. Mama Giddei, infatti, opera da molti anni come terapeuta cui la comunità conferisce un grande riconoscimento; il marito, invece, è un prete della Chiesa Ortodossa. Per i loro saperi e per le loro attività spirituali e terapeutiche, tutti gli abitanti della zona conoscono bene la donna ed io stessa non ho avuto problemi a ritrovarne la casa, pur essendo situata in una zona impervia della città.
Mama Giddei è una donna molto particolare. Fiera della sua posizione e del prestigio di cui gode nella comunità, non esita a manifestare i segni del suo benessere che, tuttavia, interpreto come calorose manifestazioni d’accoglienza.
Com’è nella tradizione locale, ordina alle sue numerose figlie di preparare tutto l’occorrente per iniziare la cerimonia del caffè e di accompagnarla con le pietanze della cucina locale. All’ombra di un grandissimo albero, inondati dall’aroma del caffè e dal profumo dello shiro[6], iniziamo una lunga e controversa intervista. Mama Giddei mi racconta la storia della sua vita, della sua famiglia, del suo sapere terapeutico che da anni mette a disposizione per la cura di numerose patologie, in un crescendo di confidenze che crea una piacevole atmosfera di empatia. La situazione cambia, però, quando io accenno al problema dell’incontinenza e quando, dopo una serie di divagazioni, le chiedo se ha mai visto o sentito di donne che non possono controllare l’urina. A questo punto, la guaritrice s’irrigidisce e afferma che non ha mai sentito parlare di una malattia del genere e poi continua, tradendo la falsità della precedente affermazione, “qui da noi queste cose non succedono, sono cose che avvengono lontano”. In queste parole ritroviamo confermata non solo l’esistenza del problema, ma anche una forte riluttanza a parlarne che caratterizza quasi tutti i miei informatori, quasi essa si configurasse come una malattia della vergogna da censurare ad occhi esterni. Una vergogna e una riluttanza aggirate attraverso un processo che potremmo definire di “esoticizzazione” della malattia, che colloca il problema in un’umanità altra, confinata in un luogo e in un tempo indefiniti, lontani da ogni possibilità di penetrazione nel corpo sociale locale.
L’esotizzazione dell’esperienze di sofferenza è una procedura che viene messa in pratica anche a livello macrosociale, soprattutto quando le metafore corporee in cui si esprime il linguaggio della malattia vanno a mettere in discussione un presunto ordine naturale delle cose, lasciandone intravedere la sua costruzione a livello culturale e politico-economico e operando una messa in discussione delle forze stesse che hanno contribuito all’incorporazione di quel malessere.
[1] I margeta, così come i deftera e i keshi, sono figure ecclesiastiche che appartengono alla gerarchia della Chiesa Ortodossa, cui pertengono specifiche competenze e funzioni rituali non per forza direttamente collegate alle pratiche di cura. Tuttavia può succedere, come nel caso di Salomon, che durante i loro studi religiosi alcuni di questi studenti vengono iniziati dai margeta e dai deftera più anziani, che svolgono le attività terapeutiche, all’apprendistato di guaritore. Salomon, ad esempio, mi racconta che il suo apprendistato è iniziato con la trasmissione tacita dei segreti da parte dei guaritori più esperti (un sapere che viene appreso, almeno inizialmente, soprattutto “rubando con gli occhi”), ed è poi continuato con training organizzati da altri guaritori anche fuori dalla regione.
[2] Habesha è l’appellativo che la popolazione locale attribuisce alla medicina tradizionale per distinguerla da quella “moderna” rappresentata dalla biomedicina.
[3] Il kuntarot corrisponderebbe alla traduzioni biomedica di emorroidi ma nella prospettiva locale è un’escrescenza estesa all’intero corpo, dal momento che può comparire sulle gambe, le mani, i piedi, gli organi genitali e nei casi peggiori nell’intestino. La menkersa corrisponde alla TB nell’interpretazione locale e uno dei sintomi sarebbe la fuoriuscita di fluidi corporei che se entrano in contatto con il corpo di qualcun altro potrebbero essere contagiose.
[4] Attualmente, l’età legale per il matrimonio stabilita dall’ordinamento legislativo è di 18 anni.
[5] Il termine wereda fa riferimento ad una delle suddivisioni territoriali in cui è ripartita la regione.
[6] Piatto tipico tradizionale a base di ceci, insaporito da spezie locali.