La posizione della donna nella società etiope secondo la prospettiva di gender ed incorporazione della sofferenza
L’analisi della costruzione del genere femminile fin qui condotta attraverso la mediazione del corpo ha portato alla luce una serie di percezioni etnoanatomiche che ci “offrono una ricca fonte di dati sui significati sociali e culturali dell’essere umano (nel nostro caso della donna) e sulle varie minacce alla salute, al benessere e all’integrazione sociale di cui si crede gli uomini facciano esperienza” (M. Lock, N. Scheper-Hughes). Adesso, quest’analisi ci permetterà di introdurre un altro livello d’indagine strettamente connesso al primo: la fisionomia corporea diventa fisionomia sociale nel senso che si traduce nella posizione assunta dalla donna secondo una prospettiva di gender in relazione ad indici sociali come l’istruzione, l’accesso al cibo, l’economia e l’accesso ai servizi di cura.
L’attenzione per il genere come processo di costruzione sociale non riguarda solo l’analisi di come si diventa donne e uomini. Riguarda anche l’analisi di come specifici modelli e rapporti di genere informino le modalità storiche, locali, di organizzazione sociale, attraversando e specificando le forme di differenziazione e disuguaglianza, informando i meccanismi di riproduzione sociale e così via. Questa disamina ci permette di andare a vedere come viene strutturata e perpetrata la posizione della donna in seno alla società di appartenenza e i meccanismi che giustificano e riproducono la sua condizione. Infatti, l’analisi della costruzione dell’identità femminile condotta finora secondo una prospettiva di genere, non ci dice solo come è e deve essere fatto il corpo di una donna. La plasmazione culturale della corporeità femminile è strettamente connessa con la posizione sociale della donna all’interno della comunità di appartenenza. Una condizione che come cercherò di argomentare è anche la principale fonte d’incorporazione del malessere a partire da un’introiezione delle asimmetrie di genere che sono emerse finora.
L’idea di un corpo “biologico” puro, chiuso, integro, dell’ “utero che sta dentro”, rimanda all’idea di un corpo sociale femminile chiuso, domestico, in opposizione a quello pubblico maschile. Riguardo all’opposizione domestico/pubblico è utile analizzare anche i luoghi comuni trasmessi di generazione in generazione in cui vengono a consolidarsi i valori di genere di una società. A tal proposito, Yeshi Haile Mariam (1995)[1] ha analizzato i proverbi[2] che hanno per oggetto le donne in Etiopia sostenendo che è anche attraverso ciò che si dice delle donne che si comprende qualcosa delle rappresentazioni collettive (maschili e femminili). Nella maggior parte dei detti le donne hanno a che fare con attività cicliche, di natura alimentare e riproduttiva: lavori e competenze che, cioè, le vedono all’opera come produttrici e protettrici di cibo e di relazioni in ambito domestico. Il comune denominatore di questi proverbi va ritenuto negli spazi domestici in cui gli altri amano vederle posizionate: la casa, o meglio una piccola parte della casa. Le donne, come le attività che svolgono sembrano collocarsi a ridosso delle abitazioni, e vengono unanimemente percepite come parte integrante del compound domestico: elementi interni, prossimi, connessi in modo intimo alla vita famigliare.
Dai dati che ho avuto modo di raccogliere, sembra che nel contesto etiope non c’è una consapevolezza dell’individuo indipendentemente dai ruoli sociali strutturati. In questo contesto, il sé è definito nei termini delle parti che costituiscono il corpo: nel nostro caso è l’integrità dell’apparato riproduttivo e la posizione dell’utero e l’espletamento delle sue funzioni fisiologiche a definire se si è una donna oppure no. Per questa stretta interdipendenza tra sé corporeo, sé morale e ruolo sociale uno squilibrio nel primo può compromettere anche gli altri piani e come nel nostro caso la donna perde il “titolo” di persona. Quando l’utero “va fuori”, “si sposta”, “si gira”, per usare le espressioni più ricorrenti tra gli operatori tradizionali della salute, allora una donna non può più essere considerata tale. Questo non soltanto per via di un’alterazione del corpo biologicamente inteso. Abbiamo visto precedentemente come nel contesto locale corpo individuale e corpo sociale, biologia e cultura non possano essere pensati indipendentemente dalla loro reciproca interazione. Lo spostamento dell’utero è una metafora corporea complessa che come tale integra aspetti fisici, narrativi e storici che s’intrecciano a fronte dell’esperienza di sofferenza, esistenziale, fisica o sociale. Le metafore corporee che si producono intorno al problema dell’incontinenza urinaria rimandano a complesse configurazioni storico-culturali che racchiudono rappresentazioni e pratiche, del corpo, della sofferenza, della persona, del contrasto fra il genere maschile e femminile e dei suoi reciproci rapporti di dominio e subordinazione. Allora, l’utero che non sta più al suo posto è una figura espressiva che indica anche lo spostamento morale e sociale che caratterizza la figura della donna in Etiopia: con questa figura retorica si esprime lo spostamento dalla convenzionalità della femminilità “regolare”, ossia di quella femminilità che si declina secondo lo status di moglie e di madre e che si manifesta e si esperisce principalmente negli spazi familiari. La sua vita è presa all’interno degli spazi domestici e la sua visibilità sociale è ridotta, così come ridotte sono quelle opportunità che le consentirebbero di potenziare la propria posizione e di veder garantiti alcuni diritti che a sua volta si configurerebbero come indici di equità e di sviluppo.
Declinando la sua identità sociale secondo i ruoli di moglie e di madre, cioè di colei che si prende cura degli affari domestici e garantisce il perpetuamento del nucleo familiare nella prole, e operando su di essa un rigido controllo affinché queste funzioni siano rispettate e garantite attraverso un’ideologia che le definisce biologicamente incomplete e pericolose, di fatto si opera un’esclusione della loro presenza da quegli spazi pubblici che sono dominati dagli uomini e che garantiscono autonomia e indipendenza.
Secondo gli studi condotti dal Federal Democratic Republic of Ethiopia, Ministry of Labour and Social Affairs, in Etiopia le donne mancano di eguali opportunità in molti settori dell’economia formale. Questa situazione è stata confermata anche da un report promosso dal network dell’Ethiopian Women’s Associatinos (NEWA) in collaborazione con l’Ethiopian Women Lawyers Association (EWLA), dal titolo “Convention on the Elimination of All Forms of Discrimanation Against Women (CEDAW). Nel testo si legge che secondo i dettami di un’ideologia dominante che prevede il controllo e lo sfruttamento delle donne, esse vengono principalmente impiegate nei lavori domestici o in attività informali poco valorizzate e spesso non remunerate. La situazione varia secondo diversi fattori, come la posizione geografica e l’età generazionale, ma in ogni caso il rapporto denuncia un gap rispetto all’inserimento maschile nell’economia formale che è elevatissimo.
Le donne, inoltre sono i soggetti più colpiti dall’esclusione anche nell’ambito dell’educazione, un settore che ancora una volta vede la preminenza della rappresentanza maschile, soprattutto nei gradi più elevati dell’istituzione scolastica. Infatti, se a livello primario la discrepanza tra la presenza delle bambine rispetto a quella dei bambini nelle scuole non è poi così elevata, le cose peggiorano man mano che saliamo nei livelli superiori, per raggiungere il picco massimo nelle università. Alle donne, fin dall’infanzia, vengono riservati specifici ambiti di affermazione della propria socialità che sono il matrimonio e la vita familiare, che pertanto le escludono dagli ambiti pubblici come l’istruzione, le attività economiche formali, la partecipazione alla vita politica.
La logica che sottende l’esclusione dall’attività educative e socio-economiche si ripercuote gravemente, non solo sul loro potere “negoziante”, ma anche sulla loro salute. Questa affermazione è vera in due sensi. Innanzitutto il bassissimo grado d’istruzione e l’incapacità economica rendono le donne meno permeabili ai messaggi di prevenzione e di cura elaborati dalle istituzioni sanitarie. Anche qualora questi messaggi diventassero parte integrante dell’elaborazione che i soggetti tessono intorno ai loro stati di benessere e malessere, la mancanza di risorse economiche personali diventa un deterrente potentissimo al fine di impedire alle donne lo sfruttamento di tutte le risorse sanitarie presenti in loco. Se l’accesso alle diverse istituzioni terapeutiche sembra impossibile per le donne che vivono nelle zone rurali, per via di una scarsa, se non nulla, presenza di risorse plurime, la situazione non è necessariamente migliore nelle zone urbane. Infatti, come rileva Bernardo Bernardi (1998) a proposito della donna africana nella condizione urbana, l’assillo che più assorbe le donne che vivono nelle città è il problema dell’assistenza sanitaria che, nonostante tutte le apparenze, proprio nei grandi agglomerati urbani si rivela il più pesante. Infatti, nelle città i ritmi di una donna sono più frenetici e i suoi compiti devono rispondere ad esigenze multiple che coniughino il lavoro domestico con attività informali extrafamiliari, che servono al sostentamento della famiglia (per quanto esse siano poco valorizzate a livello economico e di riconoscimento sociale). Spesso, poi, le donne cittadine non possono contare su quella rete di parenti e vicini che nei villaggi garantisce il proseguo dell’attività femminili, permettendo alla donna di sospendere, anche solo per un brevissimo periodo di tempo, i suoi compiti e di dedicarsi al ripristino del suo stato di benessere. Infatti, tra le motivazioni addotte dalle donne intervistate nei Fistula Hospital circa l’incapacità di rivolgersi inizialmente ad una struttura sanitaria, quella dell’impossibilità di allontanarsi da casa e di sospendere le attività domestiche che si credono essere di loro esclusiva competenza è una delle più frequenti.
“Chi si sarebbe occupato della casa se io andavo a farmi curare lontano e per tanto tempo?”, risponde Abanesh quando le chiedo perché era rimasta per più di tre mesi in casa senza tentare alcuna cura, come lei stessa aveva ammesso.
“Noi donne abbiamo molti lavori domestici da fare per mantenere la casa e la famiglia, non possiamo andarcene da casa. Chi si occupa dei lavori domestici altrimenti?”, è il commento di Haimanot sul perché non ha pensato di rivolgersi ad un centro di cura per risolvere il suo problema.
A questi impedimenti legati alla sfera dei compiti sociali, si aggiungono le difficoltà materiali che si concretizzano nella dislocazione delle risorse non sempre facili da raggiungere, e nella loro inaccessibilità economica. Lavorare fuori casa e possedere dei beni può essere rilevante per l’indipendenza economica e il potere delle donne che può tradursi nell’opportunità di mantenere un livello di salute socialmente accettato, ma per chi è escluso dai diritti economici (ad esempio i diritti di proprietà[3]) e dalle attività remunerative, curarsi diventa una possibilità impraticabile.
Inoltre, lo stretto e perpetuo controllo che si opera sul corpo femminile a partire dall’infanzia, prima da parte della famiglia di origine della donna e poi, successivamente da parte del marito e del nuovo nucleo familiare cui si accede con le nozze fa si che la donna sviluppi una mancanza di controllo e di gestione del proprio corpo e dei suoi stati esperienziali (come la malattia). Questo si traduce in un senso di segretezza della propria fisicità e di appartenenza esclusiva allo sguardo del marito o delle donne della famiglia, che ostacola la possibilità di rivolgersi ad operatori sanitari esterni. Questa interdizione e il senso di vergogna, di imbarazzo, che accompagna la diagnosi, sia essa tradizionale che biomedica, mi è stata confermata da tutti gli attori sociali. I guaritori tradizionali, specialmente uomini, più volte hanno ribadito che sono poche le donne che si presentano nei loro ambulatori per farsi curare dalle malattie dell’apparato genitale, infatti la loro clientela per questo tipo di problemi è principalmente maschile. Alcune donne che si presentano nei loro “studi” vengono da sole per evitare che altri sappiano del loro problema o che i loro “segreti” siano diventati di dominio di occhi esterni. Oppure, in altri casi, l’esposizione dei sintomi viene riportata dai parenti, evitando che la diretta interessata si esponga al controllo extrafamiliare.
Anche alcune TBAs, parlando degli interventi terapeutici per risolvere il problema dell’incontinenza in seguito al parto, hanno sottolineato l’appropriatezza di un intervento che si compia all’interno delle pareti domestiche, con il loro ausilio e quello delle donne di casa piuttosto che operato in contesti in cui lo sguardo clinico è distante dalla familiarità con queste donne.
La stessa riluttanza a rivolgersi ad operatori di cura, specialmente quelli della medicina occidentale, è presente anche nelle dichiarazioni delle donne affette da fistola ostetrica. Molte hanno ammesso di non aver seguito nessun follow up biomedico durante la gravidanza e di non essere ricorse ad alcuna risorsa terapeutica, o a quella della clinica di stampo occidentale, dopo l’insorgenza del problema per una questione di pudore. Ad ogni modo, anche qualora la vittima si sia rivolta a qualche fonte di cura lo ha fatto solo dopo una previa consultazione familiare e l’accordo preso comunitariamente, a riprova di una mancanza di individualizzazione del sé e del controllo operato sul corpo femminile e sui suoi stati esperienziali.
Si capisce allora, come la manipolazione fisica e il controllo sociale operato sulle donne e dalle donne, per via di un’incorporazione della logica simbolica che le definisce e le legittima, venga a tradursi in una materializzazione delle disparità e in una posizione che le rende vulnerabile all’esperienza del malessere.
[1] Cit. in Peveri V. (2007), Voci di donne. Essere e divenire in un villaggio Hadiya, Etiopia centro-meridionale, Baiesi, Bologna.
[2] Riporto alcuni dei proverbi segnalati da Yeshi Haile Mariam che esemplificano lo sguardo comunitario (compreso quello delle donne) sull’identità femminile all’interno della società etiope: A woman for a home/a mill for flour; A woman and toffa in the kitchen/pantry; A chicken on the coop, a woman in the kitchen/pantry; A woman and a cat in the kitchen/pantry; Woman in the kitchen/pantry, man in the court. Il messaggio che si evince da questi detti locali è che le donne appartengono alle cucine, tant’è che sono equiparate agli utensili presenti in questo luogo e da loro utilizzati per le attività culinarie e agli animali che ruotano intorno agli spazi domestici.
[3] È importante sottolineare che secondo la legge federale etiope gli uomini, come le donne, hanno uguale diritto ad usare, cedere, amministrare e controllare la terra. Tuttavia, nella realtà dei fatti, questo diritto resta solo una dichiarazione di principio senza attuazione, poiché la maggior parte della popolazione femminile viene esclusa da un reale controllo sulla proprietà terriera. Secondo la CEDAW (2003), il 70% delle donne sposate non ha il diritto di gestire i frutti del proprio lavoro agricolo per un personale sostentamento o in caso di bisogno.