La ricostruzione nosologica ed eziologica della fistola ostetrica all’interno del settore “professionale”

A Mekelle, l’offerta terapeutica biomedica è dislocata tra il settore pubblico e quello privato. Nel campo pubblico sono presenti due grandi ospedali (il Mekelle Zonal Hospital e l’Ayder Hospital) che fungono da punti di riferimento non soltanto per la capitale del Tigray, ma per l’intera popolazione della regione etiope, e pochi centri di cura primaria (gli health centers). Più variegata e numerosa è l’offerta del settore privato, all’interno del quale sono riscontrabili una serie di cliniche e qualche piccolo ospedale. Tra questi è importante segnalare, ai fini della mia ricerca, il Mekelle Fistula Hospital, un ospedale privato aperto nel 2005 come prolungamento di quello principale stanziato ad Addis Abeba ormai più di trent’anni fa. Nei Fistula Hospitals vengono curate esclusivamente donne con problemi di fistola ostetrica che i servizi sanitari dislocati nel territorio e le organizzazioni umanitarie sono riuscite ad individuare. Nelle zone circostanti alla capitale tigrina (come ad Agula e Debri, che sono stati i villaggi privilegiati dalla mia indagine, dopo la città di Mekelle), invece, l’offerta terapeutica professionale è limitata esclusivamente alla presenza di un health center pubblico per ciascun villaggio, dove si effettuano solo operazioni di routine, che non richiedono la presenza di personale medico specialistico.

Durante il mio soggiorno, ho intervistato diverse figure professionali, sia nel settore pubblico che in quello privato, le quali condividono una sostanziale visione comune sul problema della fistola ostetrica e sulle sue cause. Ho rivolto la mia attenzione sia ai ginecologi, che sono i professionisti più accreditati nella risoluzione dei problemi dell’apparato riproduttivo, sia alle ostetriche professionali quanto a operatrici con qualifiche più generali come le infermiere. Ne è emersa una comunanza di credenze e di spiegazioni che, come era facile prevedere, rispecchia i modelli interpretativi propri del settore biomedico in cui queste figure si sono formate e si trovano ad operare.

Rispetto ad altri contesti che esulano da quello professionale, la categoria nosologica della fistola ostetrica è ben conosciuta, senza rivisitazioni terminologiche. Di essa se ne parla come di una lacerazione, di un’apertura anomala tra i tubi vaginali e quelli del retto, come spiegano i manuali di ginecologia. Tuttavia, tra gli operatori meno qualificati troviamo una definizione che fa appello alla logica classificatoria basata sui sintomi, piuttosto che su un’alterazione dell’apparato anatomico. Infatti, alcuni infermieri identificano la fistola ostetrica con l’incontinenza urinaria. Questa logica classificatoria rispecchia quanto aveva sostenuto Wondwosen (2006) a proposito delle modalità di nominare la malattia su cui si basano le classificazioni nosologiche etiopi. In questi casi, infatti, il problema viene nominato in base al sintomo dominante che è appunto l’incapacità di trattenere l’urina (e nei casi più gravi anche le feci)[1].

Senza variazioni, invece, si presentano le spiegazioni che sono addotte circa le cause d’insorgenza della fistola da parto. Tutti concordano nell’individuare il parto precoce, a sua volta conseguenza di matrimoni prematuri, come unico e principale motivo nel determinare il problema. La pericolosità di un parto, però, non risiede unicamente nella sua precocità, ma anche nel contesto in cui avviene. Spesso, infatti, le donne (tanto per ragioni strutturali che per motivi afferenti alla sfera simbolico-religiosa) partoriscono nelle proprie abitazioni grazie all’ausilio di ostetriche tradizionali, cui la comunità ripone una grande fiducia nella gestione della donna incinta in tutti i suoi stadi: quello della gravidanza, il momento del parto e il puerperio.

Dal ginecologo della clinica privata a quello impiegato nella struttura pubblica, dall’ostetrica all’infermiera, tutti sono unanimi nel ritenere che la fistola ostetrica sia l’espressione diretta di complicanze che possono insorgere durante il parto se l’evento coinvolge ragazze troppo giovani e se esso si verifica in casa, alla presenza di personale non qualificato per fronteggiare le situazioni di emergenza e per scongiurare i rischi di morte o di danni fisici alla madre e al bambino.

Altro punto su cui il giudizio è concorde riguarda il dislivello d’incidenza della malattia tra la città e i villaggi. Infatti, secondo la maggior parte degli operatori sanitari la situazione dei centri urbani è qualitativamente superiore rispetto alle situazioni che si possono incontrare nelle zone rurali. In città c’è molta più informazione su quelle che sono state chiamate le “harmfull traditional practices”, ossia le pratiche dannose che la tradizione ha perpetrato fino ai giorni nostri, ma contro le quali numerose campagne governative e non, combattono da anni al fine di sensibilizzare la popolazione sui rischi e sulla violenza ad esse connessa. Tra queste, un interesse di prim’ordine è stato assegnato proprio al matrimonio combinato, che costringe le giovani donne a sposarsi molto presto anche contro la propria volontà, con uomini che non conoscono affatto. Collegato al discorso dell’early marriage c’è quello del parto, soprattutto ad essere poste sotto accusa sono tutte quelle pratiche condotte dalle ostetriche tradizionali (TBAs) tra le pareti domestiche, prive degli adeguati strumenti sanitari e tecnologici per scongiurare il contagio di malattie e i pericoli inaspettati del travaglio. È degno di nota come nell’opinione comune la diversa situazione che si registra nelle città, dove l’incidenza delle harmfull practices viene dichiarata notevolmente diminuita, sia merito esclusivo della riuscita propaganda di informazione operata dalle istituzioni sanitarie ufficialmente riconosciute e da organizzazioni umanitarie governative e non governative. Al contrario, nelle zone più remote del paese, dove le pratiche culturali giudicate errate fanno ancora sentire il peso della loro violenza e dannosità, la perseveranza non è imputata ai limiti di penetrazione delle campagne di sensibilizzazione, bensì ad una cultura efferata e umanamente ingiusta che ancora si ostina a ledere l’integrità corporea e morale della sua popolazione. Torneremo sull’artificiosità e i pericoli di tali retoriche successivamente.

Unica voce fuori dal coro, in questa politica dell’early marriage, è stata quella del direttore del Fistula Hospital di Addis Abeba, il professor Gordon William. Ho incontrato il dottore presso il suo studio dirigenziale dell’ospedale della capitale quando la mia ricerca si trovava, temporalmente parlando, a metà strada. A quel tempo, i contorni del fenomeno della fistola ostetrica da me indagato erano ormai inquadrati entro una spiegazione causazionale che teneva conto quasi esclusivamente degli effetti dannosi del matrimonio precoce e dei conseguenti parti prematuri. Convinta di ritrovare la stessa retorica causativa anche nelle spiegazioni del direttore, ho orientato la mia intervista verso l’approfondimento delle questioni inerenti l’early marriage e come esso potesse effettivamente configurarsi quale causa primaria dell’insorgenza della fistola ostetrica. Tuttavia, quanto più io cercavo di incentrare le cause sul matrimonio precoce, più la percezione della malattia da parte di Gordon William si discostava da questa prospettiva analitica.

Perché insisti tanto sull’early marriage?” Mi chiese, visibilmente seccato, il professore ad un certo punto dell’intervista. “pensi che se una ragazza nel tuo paese si sposa giovane e partorisce presto, diciamo intorno ai 15-16 anni, le verrà la fistola vaginale? O meglio, pensi che soffrirà e rischierà di morire per la fistola vaginale?.

Queste che, in prima istanza, sono risuonate come parole di affronto che mettevano in crisi il mio sguardo analitico, sono poi risultate di estrema importanza nel riorientare la mia analisi verso un approccio meno “culturalizzante” e maggiormente imperniato su aspetti strutturali attinenti alla sfera della politica economica. Secondo Gordon William il matrimonio precoce, imposto alle giovani donne senza il proprio consenso, non è strettamente connesso con la fistola da parto. Certamente, esso può essere considerato una grave detrazione della libertà di scelta personale perpetrata ai danni delle donne, ma, al di fuori di ogni giudizio morale, il matrimonio precoce non può essere condannato come fattore causativo della fistola ostetrica. O meglio, è del tutto fuorviante addurre l’early marriage quale causa primaria dell’insorgenza del problema. Secondo il medico, perpetrare questa retorica significherebbe occultare quella che lui giudica la reale causa della patologia: la povertà e la conseguente malnutrizione che blocca la crescita fisica delle donne, ponendole nella condizione di andare in contro a gravidanze complicate. Una spiegazione che lascia evincere una forte lucidità di analisi, ma anche una sconvolgente realtà: sono le condizioni economiche e di miseria materiale a esporre la maggior parte della popolazione mondiale al rischio di contrarre determinate malattie, così come sono i privilegi di un’economia disequilibrata a salvaguardare una piccola parte del mondo dalla sofferenza di quelle stesse patologie. E questo al di là di ogni fattore culturale, “razziale” o di gender, che se anche hanno un ruolo nell’orientare l’esposizione a certe malattie esso è sovra strutturante rispetto alla povertà. Tuttavia, il riconoscimento di questa violenza strutturale insita nelle dimensioni macrosociali, politiche ed economiche non è mai presente nella percezione e nella costruzione sociale della malattia in esame. Quello che emerge tra le figure professionali ufficialmente riconosciute è una visione del problema che non si discosta affatto dal modello esplicativo biomedico dal quale eravamo partiti. Eppure più volte abbiamo ribadito che uno stato alterato di salute non può essere visto solamente come un evento ancorato al mondo empirico. Esso tocca sfere che vanno al di là della contingenza e dell’ordine naturale delle cose, per ancorarsi ad un piano che chiama in causa l’ordine morale e l’ordine cosmologico su cui si regge ogni società. Queste spiegazioni, che tanti studiosi dei sistemi medici hanno classificato sotto il dominio della sfera “sovrannaturale” le ritroviamo non appena ci discostiamo dall’arena professionale presa in esame finora, ed andiamo ad analizzare la percezione e la costruzione che operano tutti quei professionisti informali, che prima sono stati fatti rientrare nell’arena “folk”.

Al suo interno vedremo come le spiegazioni di un evento di malattia siano più variegate e come i due domini quello “naturale” e quello “sovrannaturale” si alternano e si compenetrano in modi, solo apparentemente, contraddittori. Come aveva già notato A.Young (1976) a proposito del sistema di credenze mediche Amhara, le spiegazioni fisiologiche (proprie di quei sistemi medici che lui definisce “internalizing”) convivono con le spiegazioni eziologiche (tipiche dei sistemi medici che lui chiama “externalizing”) che esprimono alterazioni nelle relazioni umane o con l’universo cosmologico.

[1] Le altre due modalità, secondo la prospettiva delineata da Wondwosen, di nominare la malattia sono la posizione anatomica e le cause.