L’autocura e il ricorso ai terapisti tradizionali
Nel momento in cui Abeba inizia a condividere il suo malessere con la famiglia comincia quello che Tullio Seppilli ha definito come la “gestione domestica della malattia”, che afferisce ad un percorso di autocura che deve essere inteso come “l’insieme dei saperi, delle rappresentazioni e delle pratiche messe in opera nella dimensione individuale, familiare o comunitaria per fronteggiare, prima ancora del ricorso a professionisti della salute, l’insorgenza di minacce ed eventi negativi avvertiti come rischiosi per la propria salute” ( cit. in Pizza, 2005). Questo insieme di saperi e di pratiche coinvolge diversi modelli esplicativi che spaziano dall’ambito “tradizionale” a quello religioso, fino alle categorie e agli strumenti biomedici.
«S’individua così uno spazio di negoziazione, cioè una continua contrattazione delle stesse nozioni di “corpo”, “salute” e “malattia”, fra i diversi soggetti coinvolti nel discorso esplicativo (la ricerca delle cause), interpretativo (la comprensione dei significati) e narrativo (la formulazione espressiva di un racconto) che si genera a partire dall’irruzione del malessere» (ibidem).
Anche Zempleni (1969) concorda nell’individuare lo spazio domestico come il luogo in cui si effettua il primo passo verso il processo di socializzazione della malattia, attraverso un preliminare accordo familiare sulla natura del problema. Questa prima formulazione precede la richiesta d’aiuto ad un terapeuta, sia esso appartenente alla tradizione che operante nel campo della medicina occidentale.
La medesima posizione è sostenuta da Lupo (1999), per il quale un evento di malattia non si esaurisce mai nel rapporto tra paziente e terapeuta, ma coinvolge prima di tutto la cerchia sociale più prossima al malato.
«La condizione di paziente resta comunque profondamente vincolata ai rapporti tra l’individuo e il suo gruppo di appartenenza, tanto da far apparire mutila o deformata un’immagine del processo curativo che riduca gli attori al binomio sofferente-terapeuta; e questo sia perché quasi sempre le scelte riguardanti la salute delle persone coinvolgono un’ampia cerchia sociale intorno ad esse, sia perché la stessa idea di malattia può non riguardare esclusivamente il singolo, ma estendersi ad includere i suoi parenti, quando non l’intera società; […] l’equivalenza tra il corpo individuale e il “corpo sociale” porta a concepire la malattia come un fenomeno collettivo, che investe l’intero gruppo».
Nel caso di Abeba, la famiglia crede che sia stata colpita dal malocchio e questa prima interpretazione risolleva il morale della ragazza perché finalmente può dare un nome al suo malessere. Riuscire ad assegnare un nome all’origine della propria sofferenza significa impadronirsi del potere di alleviarla ed è un passo critico verso la ricostruzione del mondo che è stato messo in discussione dalla presenza di uno stato patologico, che rischia di trasformarsi in una condizione cronica (B. Good, 1994).
Anche altri pazienti e alcuni guaritori tradizionali hanno ascritto la causa dell’incontinenza alle forze sovrannaturali, come conseguenza della rottura delle corrette relazioni sociali o come un’infrazione sacrale da parte sia della donna malata che della sua famiglia. Non dovremmo essere stupiti da questo tipo di spiegazione intorno alla malattia, né dovremmo considerarla come un’interpretazione ingenua del problema, legato ad una modalità di pensiero che affonda le sue radici nella sfera della magia e della superstizione, lontana dall’oggettività del pensiero scientifico.
«Le categorie terapeutiche locali, parimenti a quelle biomediche, andrebbero invece apprezzate come categorie culturali che recano in sé iscritte concezioni specifiche del reale, della conoscenza e della persona, concezioni che gli attori sociali vivono e considerano come naturali, così come per noi è naturale concepire la malattia come fatto di natura e la persona in termini esclusivamente individuali. Riconoscere nelle proprie categorie mediche il precipitato di specifiche concezioni culturali rappresenta dunque il primo passo per poter avviare un confronto che, anziché delegittimare le concezioni altre come non scientifiche (tradizionali), dia vita ad un proficuo dialogo volto a comprendere quanto la malattia rappresenti anche una specifica forma di esperienza culturale, tutta da indagare rispetto alle locali forme di esistenza storica»(Quaranta, 2010).
Se la natura della persona rinvia ai rapporti in cui è inserita, come abbiamo visto nel precedente capitolo, ne consegue che di fronte ad un episodio di afflizione, sarà proprio la natura della persona, ovvero i suoi rapporti sociali, ad essere indagata.
Ci sono molti antropologi che sottolineano la stretta relazione tra malattia e ordine sociale. Uno di questi è Marc Augé (1986) che sostiene come ci sia una profonda interdipendenza tra l’ordine biologico e l’ordine sociale, all’interno di molte comunità Africane. Uno squilibrio nella prima sfera, quella dell’organismo biologico, è il segnale di un disordine che risiede in un altro livello causativo: quello sociale e cosmico. Anche Lupo (1999) sostiene che
«non pochi gruppi umani concepiscono la malattia in termini non soltanto d’individuale sofferenza, ma la collochino in una più ampia categoria, comprendente i concetti generici di “disgrazia” e “sfortuna”, per cui i mali del corpo non vengono isolati da altri fenomeni di segno negativo e di portata anche collettiva […]».
Questa affermazione ci mostra come “la malattia venga sovente concepita in termini “olistici”, ossia inserita in un articolato intreccio di influenze, connessioni e rapporti di tipo organico, sociale e trascendentale […] (ibidem)”. Ciò è vero perché “le idee intorno alla salute e alla malattia s’iscrivono nel più ampio quadro delle concezioni che ogni cultura elabora sul sé, sulla persona e sui rapporti tra gli individui, il loro prossimo e le componenti del cosmo” (ibidem).
Una siffatta concezione giustificherebbe, in parte, il forte senso d’imbarazzo provato sia dalle donne malate che dalle loro famiglie, un senso di repulsione e di vergogna che è motivato non solo dall’incontinenza e dal suo odore offensivo, ma anche dalla trasgressione delle regole sociali (Augé, 1986). Dal momento che molte culture non occidentali hanno stabilito uno stretto legame tra ordine cosmico e sociale da un lato, e salute corporea dall’altro, la malattia non è più parte di una dimensione organica e “naturale”, bensì appare come il segno di un disordine di altro genere, che chiama in causa direttamente la responsabilità della vittima e della sua famiglia. Per questo, la ricerca di senso che l’afflizione genera non potrà che condurre una persona a consultare quegli specialisti locali che si ritiene abbiano gli strumenti e le capacità per indagare il piano invisibile delle intenzionalità altrui.
Continuando con la storia di Abeba, dopo la spiegazione che attinge all’ordine soprannaturale, la famiglia realizza che questo problema non è un evento eccezionale che ha colpito esclusivamente la loro figlia, ma è una malattia ben conosciuta che ha già colpito altre donne. Così, i parenti della vittima si rivolgono ad un guaritore tradizionale che vive vicino al loro villaggio. Il terapeuta le prepara un composto da bere, formato dalla miscela di differenti tipi di erbe, il cui contenuto resta un segreto professionale. Quello della bevanda a base di erbe non è l’unico rimedio diffuso tra le pratiche terapeutiche della tradizione. Come abbiamo visto già nel capitolo dedicato ai saperi e alle pratiche dei professionisti tradizionali della cura, rientrano in questo settore anche le fumigazioni, l’acqua benedetta proveniente dalle fonti sante (maichellot) e l’idea di una dieta equilibrata basata, principalmente, sul consumo di burro e miele. Anche Abeba sperimenta più di un rimedio tradizionale e con sua grande frustrazione è costretta a verificarne l’inefficacia. Infatti, la sua incapacità a trattenere l’urina continua a limitare la sua vita quotidiana. A questo punto, la famiglia si rivolge ad un altro guaritore tradizionale, come avviene di solito per tutte quelle malattie che presentano un alto livello di gravità. Infatti, a parte per certe affezioni banali è raro che sia consultato un solo guaritore.
Anche il secondo terapeuta diagnostica la causa della malattia in termini di buda, cioè di malocchio, ma prescrive una cura differente. Abeba, infatti, mentre mi racconta della seconda esperienza terapeutica si porta le mani al collo e mi indica un kitab, che le sarebbe stato preparato dal guaritore come risoluzione al suo male.
In questo caso la terapia, secondo il consenso dei familiari e del guaritore stesso, riesce, ma l’efficacia si esplica ad un solo livello causativo, mettendo in risalto la dimensione pluricausale di ogni evento di malattia.
“Con il kitab sono guarita dal buda, però continuavo a non riuscire a controllare l’urina”, confessa Abeba.
È avvenuta la guarigione sul piano soprannaturale che ha ripristinato l’ordine cosmico e morale in cui s’inscriveva il problema della ragazza, ma permane il malessere sul piano fisiologico che continua ad affliggere anche la sfera della gestione quotidiana relativa al ruolo di donna sposata. Ormai la giovane è sul punto di arrendersi alla sua malattia, che lei considera come un volere di Dio. Può succedere, come dice Farmer (2003) che di fronte alla sofferenza più estrema, anche gli oppressi finiscano per accettare la propria sorte come naturale ed inevitabile, anche quando le condizioni sociali umane sono gravemente distorte e ingiuste.
Abeba è rassegnata e le sue disponibilità economiche prosciugate. È in questo momento di sconforto e rassegnazione che si prospetta per la ragazza la possibilità di rivolgersi ad una struttura sanitaria grazie all’intervento di un operatore del campo dell’assistenza sociale, di cui Abeba non sa dirmi l’appartenenza. Sono molte le strutture che si occupano di reperire donne colpite dalla fistola ostetrica, dal già citato Fistula Hospital alle varie dislocazioni territoriali della Women’s Association, dal ministero della salute etiope alle organizzazioni non governative (ad es. Paithfinder). Con l’intervento di uno di questi organi assistenziali, la giovane viene messa nelle condizioni di raggiungere l’ospedale di Mekelle e di poter iniziare un nuovo percorso di risanamento che afferisce all’orizzonte terapeutico biomedico.