Le cure biomediche e un nuovo orizzonte di senso

Fino a quel momento l’idea di indirizzare la cura al ricorso della biomedicina non era stato preso in considerazione, né tanto meno Abeba o la sua famiglia erano a conoscenza dell’esistenza di un centro appositamente finalizzato alla cura dell’incontinenza, confermando quanto detto precedentemente rispetto alla mancanza di permeabilità dell’operato propagandistico e risanatore dei Fistula Hospitals.

La mancata presa in considerazione della risorsa biomedica non deve essere letta come una dichiarazione di coerenza nei confronti della risorsa tradizionale cui finora ci si era affidati. Come afferma Fassin (1992),

«se è vero che la malattia, o meglio le rappresentazioni e le pratiche ad essa connesse chiamano in causa la dimensione simbolica, la “quete therapeutique” (quest for therapy), per usare una felice espressione di J.M.Janzen (1978), ha prima di tutto dei fini pratici e il fatto che ci si rivolga a risorse terapeutiche diverse risponde alla logica empirica di trovare una soluzione per la propria sofferenza».

Nel ricorrere a differenti registri terapeutici non si avverte nessuna contraddizione: la logica è quella della guarigione. Quanto al cambio d’opzioni, questo avviene nel momento in cui si ha la presa di coscienza che il trattamento in corso è inefficace e che ci potrebbe essere un intervento che offre un’alternativa migliore (ibidem). Ciò dimostra come la logica teorica differisca molto dalla logica pratica nella ricerca del risanamento.

A detta di Abeba, della sua famiglia e del secondo guaritore che l’ha presa in cura la terapia è stata efficace per quanto riguarda il problema del buda e pertanto l’azione risanatrice della cura tradizionale può dirsi conclusa. Restano ancora da sanare gli aspetti fisiologici del problema, per i quali, come abbiamo già visto esaminando le ricostruzioni eziologiche e le relative forme d’intervento terapeutico proposte dai terapeuti della tradizione, occorre rivolgersi ad un altro tipo di medicina, non più a quella habesha, bensì a quella “moderna”. Infatti, i guaritori sono i primi a riconoscere la superiorità della medicina tradizionale quando si tratta di ripristinare le cause patologiche afferenti all’ambito sovrannaturale, ma ammettono i limiti del proprio intervento nei casi in cui la malattia richieda un’azione tecnica, di cui non dispongono né le conoscenze teoriche né gli strumenti pratici per fronteggiarla. Abeba mi dice che il guaritore le aveva suggerito di rivolgersi alla medicina occidentale perché “loro sanno quello che devono fare”, ma ancora una volta la ragazza si trova a dover fare i conti con le limitazioni materiali della propria esistenza. Ritornano adesso le stesse motivazioni che avevano condizionato la giovane a partorire in casa piuttosto che rivolgersi alla struttura ospedaliera.

“Come facevo ad andare in ospedale, era lontano e io non potevo camminare per tutte quelle ore con il mio problema. E poi non avevo i soldi, avevamo già speso tanto per le medicine habesha. Dio aveva voluto così ormai e io non ci potevo fare niente”.

Come ho sostenuto fin dall’inizio e come la storia di questa giovane ragazza ci ha dimostrato, è la povertà e la distribuzione ineguale di risorse a condizionare l’esistenza di un numero elevatissimo di persone e ad incidere negativamente sui processi di salute e malattia.

L’Etiopia ha oltre 82 milioni di abitanti (dati WHO relativi al 2009) e secondo l’UNDP (United Nations Development Programme)[1] esso rimane uno degli stati più poveri dell’Africa, con il 45% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. Il Tigray, la regione più a nord della Repubblica federale democratica d’Etiopia, in cui si è concentrata la mia ricerca e da cui proviene Abeba, non fa eccezione in questo quadro di estrema miseria materiale. Gli indicatori demografici ottenuti dalla Repubblica Federale Democratica d’Etiopia (2005/2006) dimostrano che la popolazione locale totale del Tigray è stimata a 4.335.000 abitanti. L’Infant Mortality Rate (IMR), Child Mortality Rate (CMR) e Under 5 Mortality rate per 1000 nati vivi è rispettivamente di 67, 42 e 106. L’aspettativa di vita per gli uomini è di 52 anni e di 54,9 per le donne.

Nonostante il miglioramento, la copertura del servizio sanitario è ancora al suo livello più basso. In Tigray ci sono solo 15 ospedali, 40 health centers, 76 health stations e 586 health posts. Il numero delle strutture mediche continua a mostrare la carenza dell’assistenza sanitaria e delle possibilità di cura. Il profilo sanitario del Tigray Health Bureau rivela anche una scarsa quantità di professionisti della salute. Il numero di tutti i tipi di dottori, di funzionari sanitari, infermieri, tecnici farmaceutici e dei lavoratori nel campo della salute è di 37, 70, 1379, 193, 137 e 63 rispettivamente. Oltre a questi numeri, che di per sé possono apparire sterili, bisogna precisare che al cospetto di una popolazione prevalentemente rurale, dislocata in zone remote e spesso impervie della regione, la maggior parte dei servizi sanitari (e sicuramente quelli attrezzati per le più diverse tipologie di cura e per le emergenze) sono invece concentrati nei centri urbani del paese, difficilmente raggiungibili per un alto numero di persone: potremmo parlare a tal proposito di un vero e proprio “aparthaid sanitario”.

Non è solo la scarsità di strutture sanitarie, del personale qualificato e la posizione geografica a rendere difficoltosa la loro fruizione. Accanto a queste ragioni strutturali che s’inseriscono nell’ambito della scarsità delle risorse, occorre tenere presenti altri fattori strutturali che incidono negativamente sulla possibilità di scegliere le condizioni che preservano la propria salute e, successivamente, in caso di malattia, che orientano i propri percorsi terapeutici. Mi riferisco a tutta quella serie di costi diretti e indiretti che una persona deve sostenere per salvaguardare il proprio benessere e che hanno a che fare con i costi dell’assistenza medica, delle terapie, con l’allontanamento da casa e l’interruzione delle attività economiche. Tutto questo ha delle ricadute drammatiche per chi vive secondo i limiti di un’economia familiare estremamente precaria. In un articolo apparso nel 2001 sulla rivista scientifica “The Lancet”, nel quale si affrontava l’analisi delle spese per le cure sostenute dai cittadini (soprattutto da parte di chi vive con meno di uno o due dollari al giorno) viene proposta la triste espressione “trappola medica della povertà”. Con essa si fa riferimento al processo per cui le famiglie, per fronteggiare un evento di malattia e non potendo pagare le spese sanitarie con i propri redditi, s’indebitano ulteriormente, aumentando la loro situazione di povertà. L’aumento della condizione d’indigenza materiale rappresenta a sua volta un fattore di rischio per la salute, facilitando un successivo evento di malattia, in un circolo vizioso che rende le famiglie sempre più povere e malate[2]. Come se questi fattori non fossero di per sé già particolarmente limitanti, occorre aggiungere le difficoltà imposte dal sistema viario etiope, che versa in condizioni di grave dissesto e che rende impossibile effettuare degli spostamenti repentini in caso di emergenza. Come per Abeba, anche per migliaia di persone che vivono nelle sue stesse precarie condizioni, il diritto universale alla salute e alla cura non è più una possibilità, ma di fatto diventa una negazione.

Al momento dell’intervista, Abeba si trovava ricoverata in ospedale da poco più di una settimana e doveva ancora subire l’intervento chirurgico che avrebbe risolto il suo problema d’incontinenza urinaria. L’operazione non era stata ancora effettuata a causa delle terribili condizioni fisiche in cui era arrivata nella struttura ospedaliera. La ragazza, infatti, come ho detto all’inizio, presentava ancora i segni di un forte deperimento fisico legato sia alle condizioni della sua malattia sia a un più generale stato di malnutrizione. Pertanto i medici le avevano spiegato che per il momento avrebbe dovuto recuperare le forze fisiche attraverso un’alimentazione costante ed equilibrata e le avevano applicato il catetere per tamponare la perdita incontrollata di urina. Oltre a questi accorgimenti tecnici, le avevano fornito anche una nuova cornice eziologica in cui inserire i segni del suo malessere. Secondo i medici la causa del suo disagio risiedeva nell’unione matrimoniale che era stata contratta in un’età in cui Abeba era ancora troppo giovane e, pertanto, non completamente sviluppata dal punto di vista fisico. Non un accenno, almeno da quanto sostiene la ragazza, a proposito della grave malnutrizione che la affliggeva, se non per giustificare la posticipazione dell’operazione chirurgica rispetto al momento d’ingresso in ospedale, intervento che sarebbe stato effettuato di li a breve in quanto unica terapia possibile in grado di curare la sua patologia. Ci troviamo di fronte ad un approccio molto diverso rispetto a quelli sperimentati precedentemente dalla ragazza. I medici, infatti, agiscono ma non spiegano, e se spiegano lo fanno oggettivando la malattia e la sua terapia riconducendola a fattualità organiche o puntando il dito contro le rappresentazioni e le pratiche culturali. Durante il percorso terapeutico, Abeba, dunque, ha sviluppato una nuova percezione della sua malattia e delle cause che via hanno condotto. Arrivando al Fistula Hospital, la ragazza inizia un processo di reinterpretazione del suo malessere psicofisico in cui i segni e i sintomi trovano iscrizione all’interno di un ordine sociale differente, che chiama in causa direttamente la cultura e le pratiche ad essa connessa. Quelle stesse pratiche culturali che prima erano state accettate come “naturali”, come cose “buone in sé” perché rispondenti alla tradizione, adesso, nell’ambiente dell’ospedale portatore di un nuovo modello esplicativo, assumono un carattere di negatività proprio perché legate ad una cultura “erronea”.

Tuttavia, non vorrei essere io ora a demonizzare i costrutti e le pratiche culturali della biomedicina e il lavoro di quanti operano nel settore ospedaliero, in particolar modo in quello che è stato il mio campo privilegiato di ricerca: il Fistula Hospital. Sicuramente, per le vittime di fistola ostetrica l’ambiente dell’ospedale è stato salvifico sia dal punto di vista strettamente organico, che psicologico e morale. Infatti, se da una parte la biomedicina si è limitata a spiegare il come della malattia e a non condividere il perché della sua manifestazione, quel senso morale, sociale e fisiologico del problema viene invece condiviso tra le pazienti che sono in grado di creare un ambiente terapeutico, dove oltre al senso immediato della malattia si cerca quello futuro del risanamento.

Abeba, infatti, ha abbandonato quella sensazione di profonda solitudine, di eccezionalità e di diversità che aveva caratterizzato l’iniziale percezione del malessere. Trovandosi faccia a faccia con altre donne che come lei non riescono a controllare l’urina, si rende conto che il suo problema non è un evento unico, bensì esso affligge molte altre donne. Tuttavia, quello che ancora non era cambiato in lei era l’idea che avrebbe potuto trovare una cura definitiva e la paura di ritornare a casa ancora afflitta dal problema e dunque destinata ad una vita di solitudine e d’isolamento sociale. In ospedale, infatti, non erano presenti solamente donne giovanissime come lei, che da poco avevano sperimentato le devastanti ripercussioni della malattia, ma c’erano anche donne mature che, prima di essere state portate nella struttura, avevano convissuto con il problema per anni, abbandonate dal marito e rifiutate dalla famiglia.

Questo triste destino non è un mostro scaturito dalla fantasia di Abeba che proietta nel futuro le ansie e le angosce per l’incertezza dell’esito della terapia. È piuttosto una comune sorte che coinvolge quante sono state colpite dalla fistola ostetrica e dalla sua conseguente incontinenza urinaria (e nei casi peggiori di feci) ed è un leitmotiv che percorre i racconti di tutti i soggetti impegnati nella ricostruzione sociale della malattia, siano essi operatori nel campo della salute (tradizionale o istituzionale), esponenti delle organizzazioni umanitarie, pazienti affetti dalla malattia o gente comune. Ho già precisato all’inizio del capitolo che la storia di Abeba non è una voce isolata, ma semplicemente il tenore di un coro che enfatizza espressioni di disagio, di sofferenza, di deprivazione e di oppressione condivise da un più ampio numero di giovani donne, appartenenti ad un settore particolare della popolazione dove l’insieme interconnesso di certi fattori culturali e situazioni strutturali hanno portato alle sconcertanti “inopportunità” delle loro vite quotidiane. Dopo l’insorgenza della fistola ostetrica quelle stesse inopportunità diventano totale mancanza di vita sociale.

Come mi è stato detto da un membro leader della Women’s Association che opera presso la Kebele di Hawelti[3], la fistola ostetrica nel momento stesso della sua apparizione cambia lo status sociale delle donne. In questo senso, la fistola ha un carattere di unicità. Rispetto ad altre forme di sofferenza, che permettono di continuare la vita sociale attraverso l’occultamento dei suoi segni, il fatto di non riuscire più a controllare l’urina condanna immediatamente le sue vittime ai margini della società, privandole anche degli unici diritti finora goduti, ossia quelli legati al ruolo di moglie e di madre. La loro vita cambia radicalmente: non gli è più concesso di attendere alle funzione ecclesiastiche, di andare al mercato, di presentarsi nelle case altrui e nessuno vorrà più entrare nelle loro a causa dell’odore offensivo emanato dalla continua perdita di urina. Le saranno inoltre precluse tutte le attività socializzanti che scandiscono la vita relazionale della donna etiope, a partire dalla cerimonia del caffé fino ad arrivare alle attività di economia informale svolte dall’universo femminile nei cortile delle case o al loro interno. Soprattutto, il loro corpo malato rompe con le simbologie corporee attraverso le quali viene plasmato il corpo femminile ed evoca metafore di disordine e di impurità che non si accordano alla funzionalità dell’ordine sociale. Nella maggior parte dei casi da me considerati, il marito della vittima divorzia e si ricostruisce una nuova vita con un’altra donna, dalla quale potrà continuare ad avere rapporti sessuali e una nuova prole. Anche le famiglie delle donne colpite da fistola ostetrica spesso reagiscono con un atteggiamento marginalizzante, costruendo per le figlie delle piccole capanne, lontane dal nucleo familiare, dove le donne trascorreranno il resto della loro esistenza.

Possiamo considerare la fistola ostetrica come la negazione della socialità, dal momento che le sue vittime sono poste in una condizione di isolamento che le pone ai margini della vita comunitaria.

[1] L’UNDP è l’agenzia dell’ONU per lo sviluppo sorta nel 1969. Dal 1990 essa pubblica lo lo Human Development Report, espressione del tentativo di superare un’interpretazione dello sviluppo in termini meramente economici. In seguito al mutamento delle politiche e delle concezioni dell’UNDP, infatti, l’HDI ha subito un’estensione: non più misurato solo in base al reddito, diviene la sintesi, la media aritmetica, di tre elementi, cioè la longevità (calcolata in base alla speranza di vita alla nascita), le conoscenze (misurate in base all’alfabetizzazione degli adulti e la media degli anni di scolarizzazione), il reddito. In tale prospettiva, lo sviluppo è stato ridefinito come “il processo di ampliamento dell’arco delle scelte delle persone, che aumenta la loro opportunità di istruzione, assistenza sanitaria, reddito ed occupazione, e copre tutta la gamma delle opzioni umane, dalla salubrità dell’ambiente naturale alle libertà economiche e politiche” (Angerame P., 2006).

[2] Martino A., Bodini C. (2010), La salute negata: da Alma Ata ai Millenium Development Goals e ritorno, in Pellecchia U., Zanotelli F. (a cura di) (2010), La cura e il potere. Salute globale, saperi antropologici, azioni di cooperazione sanitaria transnazionale, ed.it, Firenze-Catania.

[3] Uno dei quartieri della città di Mekelle.