Le difficoltà del campo
Il campo è un’esperienza difficile da vivere. È difficile sia mentre ci troviamo immersi in una realtà “altra” da quella della nostra quotidianità, sia prima di raggiungere concretamente questa realtà. Infatti, se mentre ci troviamo sul campo siamo assaliti da uno straniamento culturale dovuto alla diversità di ordini simbolici distanti, non meno difficile da gestire è stata per me quella sensazione di ignoto cui andavo incontro prima del mio arrivo a Mekelle. Una percezione ed un timore non ancora alimento dalla consapevolezza e dalla conoscenza di una realtà concreta e dalla condivisione di modi differenti di stare al mondo, ma solo dai pregiudizi e dalle paure che avvolgono, come un alone poco veritiero, la parola Africa. Ogni volta che comunicavo a qualcuno la decisione di partire per l’Etiopia, la prima domanda che mi veniva posta era: “non hai paura delle malattie?”, e subito dopo: “hai fatto tutti i vaccini?”. Un unico pensiero sembrava accumunare tutti coloro con cui condividevo la mia decisione: il fatto che io fossi una persona estremamente coraggiosa e anche un po’ incosciente! In realtà non é stato il coraggio a farmi decidere di partire e nemmeno posso dire di averlo fatto in totale stato di inconsapevolezza. Innanzitutto, avevo cercato di superare questa apparente incoscienza con la quale avevo deciso repentinamente di partire (un’idea che in realtà prende forma nel corso degli studi) documentandomi accuratamente sulle condizioni di vita della popolazione locale, sulle malattie più diffuse, sulla stabilità (o meglio instabilità) dei rapporti politico-economici con i paesi limitrofi. Nonostante un preliminare avvicinamento all’esperienza del campo e alla realtà di vita concreta in cui sarei andata a vivere per cinque mesi, ero comunque tormentata dalle paure più ricorrenti di chi si reca in un paese africano per la prima volta (e che non si limita a restare chiuso in quelle “oasi di pace e tranquillità” dei villaggi turistici costruiti ad hoc per viaggiatori finti amanti dell’esotico): patologie, sporcizia, insetti, carenza di cibo, povertà endemica e rischio di guerre. Insomma, mi ero già ammalata prima di partire: affetta da pregiudizi e stereotipi!
Dunque, le prime difficoltà da dover superare sono stati proprio i miei condizionamenti mentali, per poi fare i conti con la realtà di campo vera e propria, e questa non è certo affare meno gravoso. Un nuovo contesto implica prima di tutto nuove condizioni materiali di vita. Sebbene le mie non fossero certamente paragonabili alla situazione d’indigenza materiale in cui vive la maggior parte delle persone a Mekelle, il disorientamento fisico e mentale, e soprattutto la distanza culturale che percepivo (oggetto anche delle nostre indagini) sono stati tra i problemi più ardui da superare. Inoltre, nonostante un adattamento ai diversi ritmi di vita, al cibo, al clima locale, e un certo assestamento psicologico (essenziale se si vuole continuare la propria ricerca sul campo) quella profonda solitudine che solo quest’esperienza finora mi ha fatto provare non mi ha mai abbandonato.
Inoltre, si devono riorientare le proprie priorità verso le possibilità e le condizioni che il campo impone, ed è necessario modificare i ritmi organizzativi tenendo conto di quelli degli interlocutori. Ricordo la fretta e la smania con cui all’inizio organizzavo le mie giornate, un continuo rincorrere gli impegni della mia fitta agenda, che finivano per essere disattesi e rimandati dai miei informatori. Quest’ultimi sono un altro aspetto molto delicato e rischioso dell’attività di ricerca. Infatti, la ricerca sul campo è un dialogo, non un’attività solitaria: gli antropologi cercano di capire i locali, ma anche i locali cercano di capire gli antropologi e questo dialogo è fatto di molte fratture e ricomposizioni, di avvicinamenti fisici ed emotivi e di allontanamenti, di solidarietà e di rifiuto. Come scrive l’antropologo francese Jean-Pierre Olivier de Sardan (1995):
Bisogna aver condotto personalmente delle interviste con una traccia prefabbricata di domande per rendersi conto di quanto gli interlocutori restino inibiti da un quadro troppo stretto o troppo unidirezionale. Bisogna essersi confrontati con numerosi malintesi tra chi fa l’indagine e chi ne è l’oggetto per essere capaci di individuare i controsensi che cospargono ogni conversazione di ricerca. Bisogna aver imparato a padroneggiare i codici locali di cortesia e buona creanza per sentirsi infine a proprio agio nelle chiacchierate e conversazioni improvvisate, che sono spesso più ricche di informazioni. Bisogna aver dovuto spesso improvvisare con goffaggine per diventare poco alla volta capaci di improvvisare con abilità. Bisogna, sul terreno, aver perduto tempo, tanto tempo, una quantità enorme di tempo, per capire che questi tempi morti erano necessari.
Come ogni attività umana fatta di scambi intersoggettivi, il campo non richiede solo tempi morti, ma è affare emotivamente e fisicamente dispendioso di energie. Dall’esaltazione emotiva si passa allo sconforto, dall’incomprensione alla comprensione, dalla stanchezza al vigore, e sempre ogni termine può volgere al suo opposto.
Probabilmente, però la difficoltà maggiore che ho avuto sul campo è stata la gestione di una percezione che ha accompagnato ogni mio incontro con gli informatori: la sensazione di essere un’intrusa, una persona che senza alcun diritto andava a curiosare nelle vite degli altri. Questa percezione era forte soprattutto quando dovevo relazionarmi con le donne malate di fistola, poiché avevo l’impressione di violare un momento molto intimo della loro storia di vita e soprattutto temevo, con le mie domande, di risvegliare un dolore e uno sconforto non ancora assopito. Mi chiedevo perché raccogliere quelle storie, con che diritto parlare per loro, che senso avesse la mia presenza e il mio lavoro e, molto spesso, affrontando le situazioni concrete, questi interrogativi apparivano del tutto privi di risposta possibile e sensata. Temevo anche di restare vittima di quella sofferenza estrema che emergeva dalle loro storie, e vista già la difficoltà dell’esperienza del campo, non potevo permettermelo. Sono state sensazioni difficili da gestire e che hanno trovato una parziale risoluzione solo spostando l’analisi degli informatori e del mio lavoro di ricerca tenendo conto di altri aspetti.
Per quanto riguarda i primi, da soggetti sofferenti inermi e passivi, “piegati” ai miei obiettivi di ricerca, analizzando attentamente le interviste e le strategie discorsive che mettevano in atto, sono apparsi molto meno “deboli” di quello che credevo. Con le sue astuzie e con le sue negoziazioni, l’informatore si configurava come un soggetto dotato di agency, che prende una posizione, all’interno del rapporto di forze, manipolando anche a suo vantaggio la scena etnografica.
Per quanto concerne il mio lavoro, invece, nonostante non continuassi a trovare pienamente valida la finalità di un lavoro di tesi quale giustificazione per entrare nelle vite altrui e prendere la parola per conto di altri, ho iniziato a pensarlo come una possibilità di testimonianza di esperienze di vita, che, seppur negoziate ed influenzate da mille fattori contingenti, non restassero prive di voce e chiuse nelle pareti domestiche o delle strutture sanitarie. D’altronde, quello di restituire il sapere e l’esperienza di cui l’antropologo si è impregnato è anche uno dei suoi principali doveri morali ed etici nei confronti della sua professione e delle persone che hanno reso possibile quest’esperienza. Bisogna rendere partecipe l’intera società che si è “prestata” all’esperimento esperienziale che l’etnografo ha vissuto sul campo, poiché questo non è stato un vissuto autistico, ma un dialogo a più voci che ha messo in gioco l’universo valoriale di una molteplicità di persone.