L’inizio dell’età moderna: Tewdros II, Yohannes IV e Menelik II

Il superamento dell’“età dei giudici”, in cui l’imperatore era una figura esclusivamente di facciata, senza poteri politici effettivi, in cui le regioni godevano di autonomia propria[1], e l’ordine sociale era sostenuto dai contadini che costituivano la sola classe produttiva della società, benché controllata dalla nobiltà e dall’aristocrazia ecclesiastica, avvenne quando un dignitario del nord, dopo aver sconfitto diversi ras, si fece eleggere imperatore nel 1855 con il nome di Tewdros II. Il suo obiettivo primario fu quello di ricomporre l’unità statale e di apportare delle riforme che dessero un aspetto di modernità al Paese. Nonostante i propositi conclamati, come fa notare Zewde (2001), i suoi sforzi mancarono di metodo e di un vero e proprio piano modernizzatore. Inoltre, i tentativi di unificazione legale ed amministrativa, di introduzione del progresso tecnico e dell’industrializzazione, di ottenimento del controllo sulla Chiesa, di fondazione di uno Stato moderno, si scontrarono con la forza dei poteri locali e con l’attaccamento del clero ai propri privilegi terrieri che impedirono all’imperatore, nonostante gli sforzi, di raggiungere i propri obiettivi. Gli unici risultati riguardarono l’unificazione militare e linguistica, che fu introdotta attraverso l’affermazione dell’amharico come lingua ufficiale, al posto del ge’ez.

Per quanto riguarda l’operato nel settore della politica estera, l’imperatore cercò di allacciare rapporti con le potenze europee, soprattutto con la Gran Bretagna in funzione antiegiziana, ma anche qui i risultati furono lontani dalle aspettative iniziali. Infatti, Tewdros morì suicida nel 1868 dopo la sconfitta nella battaglia di Magdala contro le armate britanniche di Napier, cui contribuì l’infedeltà dei ras.

Nonostante le sconfitte subite, fu con Tewdros II che “l’evoluzione accentratrice e razionalizzatrice non sarebbe più stata veramente rimessa in discussione nonostante le opposizioni di vario genere che tali riforme suscitavano” (Calchi Novati, 1994).

Alla morte dell’imperatore seguì un periodo d’instabilità, causata dall’assenza di una discendenza per linea diretta. Il trono venne conteso da più parti, dal momento che quasi tutti i nobili vantavano un qualche legame con la dinastia salomonica, rivendicando dunque il proprio legittimo diritto al potere imperiale.

Alla fine, salì al potere Wagshum Gobaze che assunse il nome di Takla Giyorgis II. Nel 1872 fu però destituito da Kassa Mercha, che si fece incoronare ad Axum con il titolo di Yohannes IV e fissò la capitale ad Adua. Il regno di Yohannes fu una continuazione di quello progettato da Tewdros II, ma accanto alla continuità politica introdusse un atteggiamento di cautela nei confronti delle potenze locali. Egli, infatti, si mostrò come un primis inter pares, cui si doveva rispetto e a cui venivano versati i tributi, ma che a suo tempo doveva garantire ai nobili i propri privilegi, anche in termini di imperio. Diversamente da Tewdros, favorì la Chiesa nelle sue capacità di potenza terrena e terriera.

In politica estera fu costretto a difendere l’integrità dello Stato da due minacce: la prima era quella anglo-egiziana, la seconda era legata alla nuova presenza dell’Italia[2] sulle coste eritree. Internamente, invece, il pericolo maggiore fu costituito sempre dalle mire al trono di Menelik, re dello Scioa, che non placò il suo desiderio d’intronizzazione nemmeno dopo che gli fu imposto un atto di sottomissione nel 1878 e nemmeno dopo le nozze tra sua figlia Zauditu e il figlio dell’imperatore. Contemporaneamente, Italia e Francia erano schierate con Menelik, la prima contro Yohannes, la secondo contro la Gran Bretagna.

Ad aggravare la situazione, fu una nuova minaccia proveniente da nord, ossia l’arrivo dell’armate dei dervisci del sudanese Mahadi, che cercava di espandere i confini territoriali del suo potere. Fu proprio lottando con le forze jihadiste durante la battaglia di Metemma che Yohannes fu sconfitto e ucciso, il 9 marzo 1889. La morte dell’imperatore fu l’occasione per Menelik di impossessarsi del potere: abbandonando la tradizione di Axum si fece incoronare a Entoto, presso Addis Abeba. Il titolo di “Re dei re” era così passato dal Tigray allo Scioa, attraverso Gondar. Con il titolo di Menelik II, il negus continuò quel processo di espansione territoriale che aveva iniziato mentre era regnante e che lo portò, in breve, a controllare una porzione di territorio corrispondente circa a quella dell’attuale federazione. La sua espansione si propagò principalmente verso il sud e il trasferimento della capitale dell’impero ad Addis Abeba può essere visto come conseguenza della volontà di porre il cuore politico al centro geografico del paese; inoltre, fu promotore di un processo di modernizzazione, di consolidamento e di decisa apertura verso l’esterno e l’occidente, che ebbe risultati più incoraggianti dei tentativi dei suoi predecessori.

[1] In quel periodo erano indipendenti i regni del Tigray e dello Scioa, che si contendevano l’egemonia sull’intero territorio nazionale.

[2] L’inizio ufficiale del colonialismo italiano risale al 1882 quanto il porto di Assab, comprato nel 1869 da una società privata, la Rubattino, passò allo Stato e divenne il punto di partenza dell’espansione territoriale nell’entroterra e lungo la costa fino a Massaua. Le iniziative italiane di penetrazione nel Corno d’Africa furono immediatamente considerate da Yohannes come una violazione del trattato di Hewet che, stipulato tra Etiopia ed Italia nel 1884 e di cui la Gran Bretagna era garante, concedeva all’Etiopia la fascia costiera del mar Rosso e il diritto di transito per Massaua. In seguito alle proteste dell’imperatore e all’immediata reazione militare di Alula, il ras locale, sia l’Italia che l’Etiopia decisero di rivolgersi alla Gran Bretagna per risolvere le loro controversie territoriali; il governo britannico assunse, tuttavia, un atteggiamento fortemente ambiguo che, di fatto, legittimò i possedimenti coloniali italiani (Zewde, 2001)