L’insorgenza della malattia: tra problema pratico e ricerca di senso
Continuando con il racconto del parto, ad un certo punto il sorriso e l’eloquenza che fino a quel momento avevano caratterizzato l’intervista si dissolvono. Abeba riconosce nel parto il tempo e il luogo in cui si è materializzata la sua malattia e la sofferenza che essa ha portato rende impossibile continuare il discorso con la stessa chiarezza espositiva, con la stessa ricchezza di dettagli che fino ad allora erano emersi nel colloquio.
La ragazza dopo il lungo e difficile parto in cui riesce a sopravvivere, ma che porterà alla morte del suo bambino, resta incosciente per un periodo che essa stessa non è in grado di quantificare. Quello che ricorda molto bene però è il momento del risveglio, quando accanto alla debolezza fisica e ai forti dolori genitali si rende conto che non è più in grado di controllare l’urina. Sarà in questi termini nosologici che Abeba e quasi tutte le vittime intervistate classificano la propria malattia. La nozione di fistola ostetrica, come già si è visto per gli altri attori sociali che non hanno competenze di medicina occidentale, è quasi sconosciuta. Solo in due casi da me registrati la categoria nosologica di fistola ostetrica era stata acquisita in seguito al contatto con l’istituzione ospedaliera.
Per l’incapacità di non riuscire più a controllare l’urina Abeba è spaesata ed incredula.
“Ero scioccata. Non sapevo cosa fosse successo, ma se provavo ad alzarmi la pipì sgocciolava da sola ed avevo le gambe tutte bagnate” mi dice la ragazza con gli occhi che guardano altrove e con la voce spezzata. Benché non fossi in grado di comprendere il suo linguaggio verbale, noto tuttavia un cambiamento nelle modalità espositive e nella mimica che accompagna il discorso, un cambiamento che da questo momento in poi sarà il nuovo registro espositivo del racconto della sua malattia.
Inizia adesso la ricostruzione delle cause e della percezione del suo malessere che al momento dell’intervista ancora l’accompagnava. Se il narrare (e il trovare risonanza e comprensione d’intenzioni) è l’elemento costitutivo per eccellenza dell’essere umano, parlare di un’esperienza forte di malattia non è sempre così facile ed immediato. Come sostiene Elaine Scarry (1985) a proposito del dolore acuto “esso porta ad una distruzione del mondo” e dei mezzi che l’uomo ha per restituire questo mondo. Si diventa afasici, perché il linguaggio non è sufficiente per esprimere la profondità e la permeabilità di un dolore che gli altri non saranno mai in grado di comprendere. Questo, credo valga anche nei casi in cui il dolore fisico è tutto sommato sopportabile, ma ciò che non può essere sopportato sono le sconvolgenti ripercussioni a livello personale e sociale di una sofferenza che invade il corpo, ma che si trasferisce anche all’ordine morale e comunitario. È il caso del dolore esperito dalle vittime di fistola ostetrica.
Dal momento della sua insorgenza in poi, la vita della ragazza (così come quella di tutte le sfortunate vittime della malattia) cambia drasticamente. La percezione del suo corpo, del suo ruolo sociale di moglie e madre viene improvvisamente destrutturato e a non riconoscerne più gli elementi costitutivi non è sola la donna colpita dal problema, ma anche la sua famiglia e l’intera società. Questo avviene perché la malattia, intesa come un processo attraverso il quale segni “anormali” sul piano comportamentale e biologico vengono “investiti di significati socialmente riconoscibili” (Young 2006 [1982]), non è mai solo un evento privato, ma si configura come uno degli avvenimenti sociali per eccellenza, che implica il coinvolgimento dell’intero gruppo comunitario e dunque porta ad una gestione collettiva della malattia. Di fronte all’alterazione di quello che socialmente è considerato un normale stato di salute, non è solo la persona coinvolta direttamente a ragionare sui sintomi che caratterizzano la sua nuova condizione e a cercare delle vie percorribili per il ripristino del precedente stato di benessere. È l’intero gruppo sociale a farsi carico del processo di cura, mettendo in atto comportamenti eterogenei che vanno dall’offerta di aiuto al malato fino alla sua emarginazione. La diversità di atteggiamenti varia molto in base alla costruzione culturale e sociale delle categorie nosologiche ed eziologiche. Nel caso delle donne affette da fistola ostetrica ad un primo tentativo di aiuto segue spesso il rifiuto e la marginalizzazione della malata, poiché la sua malattia contraddice l’ordine comunitario e la divisione sociale in cui la vittima (in qualità di moglie e di madre) non riesce più ad inserirsi.
Di fronte ad ogni malattia l’individuo è costretto a fare in conti con la sospensione del precedente stile di vita e di uno stato di salute ritenuto accettabile dalla collettività e nei casi più gravi ad affrontare il rischio della sua morte. Benché la fine di se stessi come individui sia una componente imprescindibile dell’essere umano, sentir minacciata la propria presenza fisica ed emotiva risulta sempre qualcosa di inaccettabile, ma che può trovare una parziale risoluzione con l’attribuzione di senso alla minaccia del proprio vissuto. Contemporaneamente, costringe l’intera società a domandarsi perché quell’evento è accaduto, perché a quella persona e perché in quel momento.
Molte delle donne intervistate spesso si chiedevano: “perché mi è successo questo?”, “forse ho fatto qualcosa che non dovevo fare”. I loro occhi tradivano spaesamento e un bisogno di risposte che avrebbe ricondotto quell’evento entro un orizzonte di senso capace di colmare, almeno in parte, il disagio e lo sconforto fisico e morale indotto dalla malattia.
Il malato, dunque, e la società intera hanno bisogno di elaborare un’eziologia e una nosologia al fine di classificare quell’avvenimento e di comprendere le ragioni della sua insorgenza, di dargli un senso e un significato.
Tuttavia, ancor prima della ricerca di senso, per Abeba il suo problema si configura subito come un impedimento alle consuete attività giornaliere cui la ragazza doveva dedicarsi per mantenere la famiglia e il decoro della casa. Con l’insorgenza della fistola ostetrica e la conseguente impossibilità di controllare l’urina, Abeba prova un senso di estraneità rispetto alla sua precedente idea di salute corporea, intesa sia in senso biologico che come “corpo sociale”, che personifica e riflette le regole sociali del proprio status di donna. Quindi, oltre alle sofferenze fisiche, che come sottolinea Durkheim (1996) non sono sufficienti a caratterizzare uno stato di malessere, Abeba percepisce anche una sospensione dalla “normale” condizione di salute soprattutto perché non è più in grado di continuare le attività quotidiane che le sono richieste.
“Non riuscivo ad alzarmi dal letto, avevo la schiena che mi faceva male e le gambe bloccate. Avevo tanto bruciore e se provavo ad alzarmi l’urina mi scendeva da sola” e poi continua “ero preoccupata perché in casa c’era tutto da fare e io non riuscivo ad alzarmi. La gente veniva a trovarmi e io non mi potevo muovere. Se mi alzavo la pipì sgocciolava e io mi vergognavo.
I malati prima di tutto fanno esperienza di un problema pratico. Vivere quotidianamente con una patologia come la fistola ostetrica crea molti ostacoli all’abitudinario modo di espletare le consuete attività, sia per il dolore che la malattia provoca, sia per l’impossibilità di nascondere le sue manifestazioni concrete, che si rendono visibili nei fluidi corporei incontrollabili e negli odori offensivi.
L’alterazione della quotidianità e l’impossibilità di rispondere con efficienza alle proprie mansioni lavorative è il tratto distintivo che secondo Basaglia (1982) caratterizza uno stato di malattia. Per l’autore infatti, la salute e la malattia appaiono due definizioni relative al concetto di “norma”, che lui individua nel rapporto tra salute ed “efficienza”, fra il corpo individuale e il corpo sociale.
«La malattia diventa ciò per cui si ricorre al medico e all’ospedale e, di conseguenza, ciò che determina la sospensione dalla vita “normale”, cioè dall’attività e dal lavoro; e la salute il segno del mantenimento dell’individuo nel proprio ruolo, nel proprio posto di lavoro, secondo il grado di efficienza richiesto»[1].
Il controllo del corpo individuale attraverso i codici culturali messi in atto dalla società per addomesticarlo è un processo che non sfugge nemmeno alle comunità più “semplici”: al contrario, come sottolinea Bibeau (1998) l’intero processo di individuazione e di contrasto della malattia costringe gli individui entro le maglie strettissime della norma, cui non è minimante concesso al soggetto sottrarsi.
Il racconto di Abeba, così come le storie dei malati in generale, ha a che fare innanzitutto con la materialità della patologia e con le difficoltà concrete che essa crea nello svolgimento delle funzioni quotidiane. Abeba è scioccata perché non riesce a controllare l’urina, ma è anche preoccupata perché non è in grado di alzarsi e di compiere i normali gesti che le sono richiesti in qualità di moglie e che sono funzionali al mantenimento dell’economia familiare.
Se a volte il riconoscimento dello status di malato può racchiudere degli aspetti positivi poiché consente al soggetto l’esenzione da una parte degli obblighi che la società impone di osservare e catalizza intorno al malato un’attenzione che solitamente non gli è concessa, questi riguardi non valgono per le vittime di fistola ostetrica. Infatti, sarà proprio l’esenzione imposta dalla malattia dalle funzioni che si connettono al ruolo di moglie e di madre (in cui si concentra lo statuto di donna) a determinare una marginalizzazione delle vittime di fistola dall’intero tessuto sociale. Dopotutto, lo status di malato risulta tollerabile solo se provvisorio. Nel caso delle donne affette da fistola ostetrica, la loro condizione rischia di divenire permanente, erodendo il riconoscimento collettivo della loro funzionalità sociale e, di conseguenza, il sostegno da parte della collettività.
È la prima volta che Abeba si trova a dover fronteggiare un problema del genere e non ne ha mai sentito parlare prima. Per questo, crede che si tratti di una nuova malattia che ha colpito solo lei e che non ha precedenti nell’esperienze dei suoi familiari e dei suoi vicini. Secondo la ragazza è una malattia sconosciuta sia a Dio che alle persone e per la sua qualità di novità ed eccezionalità è incurabile. Abeba percepisce un forte sentimento di solitudine che è una delle sensazioni che accompagnano spesso i malati quando non riescono a condividere con chi gli sta intorno il profondo senso di disagio e di malessere, legato sia all’esperienza di dolore fisico sia spirituale. Uno dei presupposti fondamentali della vita quotidiana è che viviamo nello stesso mondo delle persone che ci stanno attorno, che il mondo che esperiamo e abitiamo è condiviso dagli altri (Schutz, 1971). Quando questa condivisione non è possibile, la malattia mette in crisi la propria presenza nel mondo perché i parametri di ovvietà incarnati dal corpo, sia individuale sia sociale, vengono a cadere.
“Non avevo mai sentito parlare di ragazze che sono costrette a stare a letto perché non possono controllare l’urina. Pensavo che fosse una malattia nuova e che nessuno mi avrebbe potuto aiutare a curarla. Così ero molto triste e me ne stavo tutto il giorno a letto a piangere. Non volevo vedere nessuno e non volevo parlare con nessuno”.
L’idea di essere stata colpita da una malattia nuova e incurabile ci fornisce una conferma significativa del fatto che la fistola ostetrica, pur essendo al contrario una patologia che colpisce un numero considerevole di donne in Etiopia, così come negli altri paesi in via di sviluppo, sia un problema che solitamente è tenuto nascosto. Potrebbe valere per la fistola ostetrica l’appellativo di “segreto pubblico” coniato da Quaranta (2006c) a proposito dell’AIDS da lui analizzata presso i Grassfield del Camerun. Nel caso, però, del problema in esame i suoi segni inoccultabili fanno si che la segretezza di una malattia pubblicamente conosciuta può essere mantenuta tale solo operando una “rimozione” dalla scena pubblica di coloro che portano i segni del segreto da preservare. Questo carattere di segretezza della malattia è funzionale sia alla famiglia della vittima, che si sottrae al pericolo di umiliazioni e denigrazioni pubbliche, sia all’ordine sociale stesso. La malattia, infatti, mette in luce le contraddizioni dell’ordine culturale ed economico sulle cui fondamenta la società riproduce e legittima se stessa.
«Perciò, come afferma Augé, la malattia è il segnale di una mancanza di equilibrio di un ordine differente, ma allo stesso tempo, è vero, come sottolineato da Zempleni, che il linguaggio della malattia, lontano dall’essere spiegato dal suo intervento terapeutico, ci consente di esaminare le tensioni e gli equilibri sociali attraverso le interferenze delle eziologie e delle loro interpretazioni. La socializzazione della malattia diventa un codice di riflessione e di discussione sugli equilibri e le relazioni» (Schirripa, 2005).
Abeba non vuole parlarne con nessuno perché considera la sua malattia un evento eccezionale che ha non ha precedenti e per il quale non ci sono cure possibili. Tuttavia, non vuole parlarne anche perché si vergogna poiché il continuo sgocciolamento di urina emana cattivi odori e la rende sempre sporca. Eppure, saranno proprio questi sintomi inoccultabili a farle superare le sue resistenze e ad aprire Abeba alla condivisione del problema.
Il primo passo verso la comprensione dello stravolgimento del precedente stato di salute viene compiuto all’interno delle pareti domestiche e coinvolge le persone più prossime alla vittima. Come ha notato A.Young (1976) a proposito del sistema di credenze mediche della popolazione Amhara “le diagnosi, nel senso di una valutazione dei sintomi precedenti alla somministrazione della terapia, avvengono nella casa della persona malata, tra i parenti e i vicini, e prima che sia consultato un erbalista”.
Questa affermazione trova un riscontro veritiero anche presso altre società e rientra nella logica di quei “rimedi casalinghi” di cui ci parla lo stesso Young.
Abeba ammette di essere stata molto imbarazzata a parlare del suo problema con la madre e con le sue amiche e vicine, tuttavia si rende conto che la sua incapacità di controllare l’urina non può essere nascosta a quanti si prendevano cura di lei subito dopo il parto.
“Non riuscivo a controllare l’urina, se mi alzavo scendeva da sola ma anche se restavo a letto ero sempre sporca. Mi vergognavo di dirlo a qualcuno, non ne volevo parlare con nessuno, però il mio letto era sempre bagnato e puzzava così ne ho parlato con mia madre che se ne era già accorta”.
Con l’esposizione del problema all’universo domestico che si dispone intorno ad Abeba ha inizio un’intensa condivisione della percezione della malattia e della ricostruzione delle sue cause, che dovrebbe orientare la scelta della risorsa terapeutica adatta a ripristinare il precedente stato di salute.
Le ricostruzioni sociali della malattia e i diversi comportamenti attivati dai soggetti di fronte allo stato di malessere sono basati sulla possibilità per chi ne è coinvolto di rivolgersi ad un contesto variegato di relazioni, di conoscenze e di pratiche terapeutiche. Questo insieme struttura quello che in antropologia medica prende il nome di itinerario terapeutico, cioè l’insieme delle strategie e dei comportamenti messi in atto dal malato e dal suo ménage familiare al fine di dare un senso all’alterazione della sua salute e far fronte e ostacolare gli eventi che il gruppo stesso considera come patologici o anormali. Come sostiene Fassin (1992), nel fronteggiare la malattia “tutto il ventaglio simbolico e terapeutico è messo a disposizione per la ricerca di una maggiore efficacia” perché la logica che orienta le scelte, in questi casi, non è quella della coerenza e della razionalità, ma della guarigione. Una guarigione che passa inizialmente anche dall’attribuzione di senso a quel che sta succedendo alla vittima, tanto nel suo corpo biologicamente inteso quanto nel corpo sociale, cioè un corpo che fornisce alla collettività alcune delle risorse metaforiche più ricche (M. Douglas, 1979) utili a confermare o mettere in discussione particolari visioni della società e dei rapporti sociali e dunque, anche del ruolo del paziente all’interno dell’ordinamento culturale cui appartiene.
Tuttavia, se la ricerca del senso (Augé e Herzlich 1986 [1983]) è un comune denominatore nelle storie dei malati, non tutti hanno le stesse possibilità dinanzi alla malattia e alle terapie. Parafrasando Fassin (1992), il cammino di un malato alla ricerca della diagnosi e del trattamento è il risultato delle logiche multiple attraverso cui salute e malattia sono pensate (che incidono sulle ricadute personali e sociali della patologia), delle cause strutturali (come le risorse terapeutiche presenti nel territorio, la loro raggiungibilità, le condizioni economiche e materiali del paziente) e dei fattori congiunturali (tra cui i consigli ascoltati, le esperienze passate, il rapporto con le risorse terapeutiche) che ne condizionano le scelte. Tali elementi s’influenzano reciprocamente e sono a loro volta influenzati da eventi contingenti e contestuali e da un’attitudine pratica che spinge i pazienti a muoversi tatticamente, rendendo gli itinerari terapeutici percorsi sempre in fieri. È giunto allora il momento di analizzare da vicino le scelte terapeutiche di Abeba e gli elementi simbolici e pratici che hanno influito nel suo percorso di risanamento. Ci renderemo conto che anche in questo caso le cause strutturali incideranno moltissimo sul percorso terapeutico della ragazza, più delle ricostruzioni eziologiche e degli eventi congiunturali.
[1] Basaglia F. (1982), Scritti. II, 1968-1980. Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica, Cit. in Pizza G. (2005), Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci Editore, Roma.