Nosologie ed eziologie locali tra ordine “naturale” e mondo “sovrannaturale”
L’analisi degli aspetti politici ed economici sottostrutturanti verranno analizzati nell’ultimo capitolo, quello che ora vorrei evidenziare è la natura culturale della malattia che acquista senso all’interno di uno specifico orizzonte di riferimento che gli permette di essere nominata, classificata e interpretata, e attraverso il quale è possibile trovare percorsi di risanamento all’esperienza di sofferenza. Ma non solo questo. Ricordando quanto è stato detto finora, credo sia chiaro che analizzare le strategie retoriche e pratiche con cui un gruppo umano costruisce e percepisce un particolare stato d’essere, significa mettere in primo piano le esperienze soggettive di malessere senza cadere nella trappola dello sguardo clinico della biomedicina. Come ha notato M. Foucault (1969), essa concepisce il corpo come un oggetto isolato del suo studio, senza correlazione alcuna con l’ambiente sociale e culturale in cui è inserito. Al contrario, è proprio questo contesto a dare valore ad un corpo e quindi ad un individuo, e sono le strutture su cui poggia la società a determinare, a volte, l’irruzione di fenomeni incomprensibili al normale vissuto esperienziale dell’essere umano, così come è sempre la comunità a ricondurre quei segni e quei sintomi incomprensibili ad un ordine spiegabile e condiviso di significati. Ecco perché ricostruire il multiforme quadro nosologico ed eziologico di una malattia diventa più che mai un’urgenza di comprensione del vissuto altrui ed uno strumento di demistificazione di realtà simboliche, che fanno apparire come naturali vissuti esperienziali profondamente condizionati da simbologie culturalmente costruite. Dunque, uno degli obiettivi primari della mia ricerca sul campo è stato quello di ricostruire le conoscenze locali sulla fistola ostetrica, ossia i suoi modi di essere nominata, descritta, percepita e fronteggiata. Quello che m’interessava era superare la riduttiva definizione biomedica del problema dalla quale io stessa ero partita (essendo le mie categorie di riferimento quelle proprie del sistema medico occidentale), per poter ricostruire un quadro nosologico ed eziologico che tenesse conto delle categorie simboliche di un’altra cultura e dei numerosi livelli che coinvolgono ogni evento di malattia, ben al di là del piano fisico in cui li riduce la biomedicina.
Nel recuperare le conoscenze e le pratiche diffuse riguardanti questa invalidante patologia, mi sono confrontata con un universo sociale variegato e stratificato: l’eterogeneità è stata colta sia a livello di posizione sociale occupata dai diversi attori intervistati all’interno della comunità etiope, sia a livello di distribuzione geografica, con forti differenze di prospettive tra i residenti delle città e quelli dei villaggi. Spesso succede che gli informatori hanno opinioni divergenti riguardo i sintomi, i segni e le strategie di cura. Una stessa malattia può essere descritta in modi diversi e, viceversa, modi di classificazione differenti possono ricondurre allo stesso problema. Queste molteplici visioni, anziché portare confusione nella ricostruzione della comprensione della malattia, si sono rivelate utili proprio per capire come essa è percepita e classificata a livello locale e quali sono le logiche interne che sostanziano la sua costruzione. Tutto ciò a patto di rinunciare ad una presunta coerenza interna di stampo biomedico e di accettare l’inevitabile vaghezza e varietà di simbologie proprie di ogni sistema nosologico. L’idea di dare coerenza alle descrizioni di malattia, trovando un insieme di sintomi che hanno una corrispondenza ed un’influenza reciproca è una trappola in cui si cade se seguiamo la logica classificatoria della medicina occidentale, che fa appello ad un concetto di natura non sempre riscontrabile in altri sistemi simbolici. Robert Pool (1993) e Raymond Massé (1997), hanno notato che le diverse interpretazioni della malattia in sistemi nosologici non biomedici, a causa della loro frammentazione e ai differenti livelli di competenze degli informatori, difficilmente possono essere racchiuse in uno schema preciso senza risentire della loro intercambiabilità, vaghezza e contraddizione. Inoltre, come afferma Ivo Quaranta (2006c) a proposito delle ricostruzioni culturali della malattia, queste a volte assumono una variabilità non sempre riducibile le une alle altre a causa della processualità stessa della cultura, del suo continuo creare e rivedere scenari significativi[1].
E’ rispetto a questa processualità che l’etnografo deve interrogarsi, non tanto e non solo nei termini di una strategia narrativa capace di renderne conto a livello testuale, ma anche, e soprattutto, nel tentativo di cogliere i temi cui essa afferisce, le realtà vissute in cui essa è radicata e rispetto alle quali i significati sono creati nel loro incessante lavoro di costruzione di una presenza significativa in un mondo dotato di senso (Quaranta, 2006c).
Ogni malattia attiva immediatamente, tanto nell’individuo che ne porta i segni quanto nel contesto familiare che gli ruota attorno, un processo di identificazione causale e di significazione che riconduce il disagio ad un’esperienza accettabile e codificabile. La comprensione di una malattia all’interno di qualsiasi sistema medico, e la sua relativa diagnosi, partono sempre dall’osservazione dei segni, dei sintomi e delle pratiche che caratterizzano la condizione patologica al di là della sua comprensione eziologica. Questi segni e questi sintomi appartengono, seguendo la prospettiva delineata da Norbert Vecchiato (1993) nel suo saggio sulla medicina tradizionale, a due domini: quello “naturalistico” e quello “magico-religioso”, i quali rispecchiano la duplicità del paradigma tradizionale etiope in cui il mondo materiale e quello spirituale fanno parte di un unico universo valoriale. Il primo, infatti, concerne la sfera empirica senza l’intervento di agenti sovrannaturali; il secondo ha a che fare con la sfera delle forze magiche (sia di segno positivo come Dio, che di segno negativo come gli spiriti demoniaci) e con la violazione delle regole che ordinano il mondo sociale. Queste due sfere d’interpretazione sono emerse anche nel corso delle mie interviste, ma con predominanza differente a seconda degli attori coinvolti nel processo di spiegazione causale. Le due componenti, come affermato dallo stesso Vecchiato, sono risultate non due domini dicotomici, ma due realtà che si compenetrano a vicenda. Nel descrivere la fistola ostetrica c’è, infatti, coesistenza di fattori naturali e sovrannaturali o, a volte, una spiegazione domina in un particolare momento del percorso terapeutico per poi volgere nell’altra. Per questo stesso motivo c’è anche sovrapposizione di pratiche terapeutiche differenti che afferiscono a tradizioni diverse. Esse sembrano rispondere a due diverse esigenze: il risanamento delle disfunzioni corporee e il ripristino delle relazioni sociali e cosmologiche alterate, entrambe indispensabili per risanare l’esperienza di malessere legata all’insorgenza della fistola ostetrica.
Sulla base delle ricerca, inoltre, è emerso a mio parere un terzo dominio causazionale che potremmo definire “socio-regolatore”: il matrimonio precoce combinato di ragazze ancora giovanissime e i conseguenti parti prematuri. Quest’ultimo è un ambito che per certi aspetti appartiene al dominio dei fatti naturali, perché entrambi sono eventi che caratterizzano la vita quotidiana di una donna e ne plasmano la sua socialità; dall’altro, però, sono due avvenimenti che si svolgono all’interno di una precisa struttura rituale che vede il richiamo tanto degli aspetti religiosi quanto il coinvolgimento di alcune pratiche “magiche”. È la loro natura altamente simbolica e magico-religiosa che determinerà la buona riuscita di un matrimonio e di un parto.
Da questa differente visione di due avvenimenti che lo sguardo occidentale considererebbe come determinati da fattori empirici e contingenti, del tutto slegati dal piano spirituale e ancorati al piano naturale, si può evincere una concezione molto diversa di “natura” nel contesto etiope. Una vasta letteratura sul sistema medico locale dell’Etiopia e sulle classificazioni emiche (Wondwosen 2006; Young 1976; Vecchiato 1993) ci mostra che l’idea etiope di “naturale” non corrisponde affatto al paradigma tassonomico occidentale, poiché per natura si intende “l’insieme delle cose create da Dio” che include anche Satana e gli altri spiriti.[2] Inoltre, riconferma quanto è stato detto finora sul fatto che è proprio il contesto sociale e spirituale a determinare il quadro eziologico e terapeutico attivo in una particolare società (M. Augé 1995 [1983]).
È giunto adesso il momento di esaminare da vicino le categorie nosologiche ed eziologiche ricostruite dagli attori sociali di Mekelle e le loro implicazioni con i piani “naturale” e “sovrannaturale” che caratterizzano l’ordine sociale della comunità etiope e danno senso all’evento di malattia.
[1] Ivo Quaranta ha indagato le ricostruzioni culturali dell’AI DS presso I Grassfield del Camerun.
[2] Cit. da E. Bruni “Traditional nosologies and vernacularization of biomedicine”, in Schirripa P. (a cura di) (2010), Health System, Sickness and Social Suffering in Mekelle (Tigray-Ethiopia), LIT, Berlin.