Note estemporanee, note di campo, lettere e diario: i paratesti dell’antropologo

L’antropologo oltre al testo etnografico finale, prodotto ultimo della ricerca sul campo, utilizza tutta una serie di paratesti (note di campo, diari, lettere etc.) che costituiscono la tavolozza da cui attingere per dare colore alla monografia finale. Questi, come ho già detto, sono strumenti che prevedono l’uso della scrittura e si inseriscono all’interno di un dibattito che, a partire dalla svolta ermeneutica-interpretativa ha visto la riflessione antropologica concentrarsi a lungo sul rapporto tra antropologia e scrittura, tra cultura e testo, tra etnografia e strategie scrittorie, all’interno di uno stimolante dibattito che esula dagli obiettivi del mio discorso. Ciò cui vorrei far riferimento, non sono le implicazioni di quella crisi della rappresentazione che ha messo in discussione i presupposti politici, etici e soprattutto epistemologici della disciplina, quanto le specificità che caratterizzano un testo scritto rispetto ad un testo orale. Al contrario dell’oralità, la scrittura “costringe o consente” (Fabietti, Matera, 1997) una formalizzazione del pensiero, che sottrae il pensiero stesso alla contingenza e al rischio del dissolvimento e favorisce delle modalità di ragionamento, riflessione e sistematizzazione maggiormente organizzate.

È vero, come fa notare Piasere (2002), che la conoscenza più profonda sul campo avviene grazie all’impregnazione, a quel feeling-pensiero incorporato, come lui la definisce, che agisce quando non si presta attenzione, e che tuttavia segna in maniera indelebile il nostro pensiero. Per Piasere si potrebbe addirittura spegnere il registratore e buttare via il quaderno per affidarsi a quello che lui chiama “metodo perduttivo”. Ecco cosa egli dice in proposito:

Il concetto di perdizione o metodo perduttivo rimanda a un’acquisizione inconscia o conscia di schemi cognitivo-esperienziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente già interiorizzati, acquisizione che avviene per accumuli, sovrapposizioni, combinazioni, salti ed esplosioni, tramite un’interazione continuata, ossia tramite una co-esperienza prolungata in cui i processi di attenzione fluttuante e di empatia, di abduzione e di mimesi svolgono un ruolo fondamentale.

Tuttavia credo che siano importanti anche tutti quegli strumenti che ci permettono di raccogliere dati, quelle “tracce oggettivate di pezzi di reale, selezionati puntando coscientemente la propria attenzione” (Piasere, 2002). Altrettanto fondamentale diventa poi analizzare questi paratesti che convogliano verso un lavoro che, come sostengono Marcus e Fischer (1998), tenda “a esplorare le varie epistemologie, le forme retoriche, i criteri estetici, le sensibilità indigene”. Infatti con la scoperta del pensiero narrativo nell’ambito degli studi di antropologia cognitiva, si presta maggiore attenzione “alle categorie, alle metafore, alle retoriche incorporate nei resoconti che sulle loro culture hanno fornito agli etnografi gli informatori”. Si cerca di edificare, cioè, un’etnografia dell’esperienza, che sonda “che cosa sia per i loro soggetti la vita e in che modo concepiscono che sia vissuta nei diversi contesti sociali” (ibidem).[1]

Ci sono innanzitutto le note estemporanee. Ogni antropologo ha nella propria borsa un quaderno sul quale appunta qualsiasi cosa che durante il giorno abbia sollecitato la sua attenzione e curiosità. Può essere un’informazione utile e spendibile nell’immediato, come il nome, l’indirizzo o il numero di un nuovo informatore, il nome di un luogo da visitare, di un ufficio da contattare, di un documento da reperire, oppure possono essere informazioni che sul momento non hanno nient’altro che il carattere della sollecitazione emotiva, ma che potrebbero costituire nell’avanzare della ricerca un nuovo spunto di riflessione o addirittura il bandolo di una matassa che ci sembrava estremamente intricata. A volte, invece, le note rimangono pura estemporaneità, e non vengono sottoposte a nessuna riflessione successiva.

Le note estemporanee hanno caratterizzato il mio lavoro quando mi trovavo per così dire “all’esterno”, ma il ricorso alla scrittura ha caratterizzato anche molti momenti del lavoro “all’interno”, cioè tra le pareti domestiche, in un continuum tra dentro e fuori, che costituiscono le due realtà spazio-temporali del campo; dunque anche la casa si è trasformata in un luogo di riflessione e di osservazione, finalizzato ad archiviare il materiale raccolto, a renderlo significativo, ad analizzarlo criticamente, a mettere in forma le idee, a riflettere sui metodi e a trovare spazi riflessivi.

Decisive a tale scopo sono le note di campo vere e proprie: informazioni e dati che rispetto alle note estemporanee s’iscrivono in una riflessione più profonda, che implica una prima messa in forma dell’ “alterità”, come sostengono Fabietti e Matera (1997), “il primo passo verso il superamento di due altri elementi costituitivi del quadrilatero etnologico: il carattere orale e la natura inconscia dei fenomeni che l’antropologo intende indagare”[2]. Solitamente, questo “coacervo grafico formato da genealogie monche, frasi spezzate, nomi, tracce, idee, ipotesi, piante di case o mappe di reticoli irrigui” (ibidem), viene messo in forma scritta ogni volta che l’antropologo ha avuto un incontro significativo (un’intervista, per esempio, ma anche un colloquio più informale) con un informatore, oppure dopo aver riletto un’intervista dalla quale sono emerse zone d’ombra da chiarire o aspetti da approfondire facendo nuovi esperimenti mentali, dopo aver reperito nuovo materiale che ci fa procedere un passo in avanti (o in dietro) nelle nostre conoscenze relative all’oggetto indagato o al suo contesto storico-sociale. “Insomma tutto ciò che l’antropologo pensa di poter utilizzare successivamente per fornire una rappresentazione coerente del proprio oggetto”. Possiamo dunque considerare le note di campo “come la traduzione di un pensiero appuntato per se stessi, in cui il riconoscimento, l’attenzione, l’intuizione sono ancora appena accennati, il processo di conoscenza è all’inizio, l’operazione di testualizzazione dell’Altro appena abbozzata” (ibidem).

Anch’io, appena ritornavo da un’intervista, ancora prima di farla sbobinare dall’interprete, cercavo di annotare le informazioni che mi erano sembrate più interessanti, gli atteggiamenti del mio interlocutore, i suoi sguardi, le sue espressioni corporali, in poche parola la sua persona così come mi era apparsa in un’interazione dialogico-corporea. In seguito, quando l’interprete aveva sbobinato e tradotto il colloquio dal tigrino all’inglese di senso compiuto (passando prima per la traduzione letterale) potevo confrontare i miei primi ricordi, le sensazioni, con l’intera intervista scritta. Puntualmente c’era sempre un di più che mi era sfuggito all’inizio, o un particolare che nell’estemporaneità dell’interazione non avevo colto, ma che valeva la pena approfondire. Più in generale, solitamente, a fine giornata, cercavo di ritagliarmi sempre uno spazio per redigere le note di campo dove appuntare tutti gli eventi cui partecipavo durante il giorno, accompagnati da commenti e riflessioni. Questo strumento si è rivelato nel tempo un formidabile supporto mnemonico che mi ha permesso di non dimenticare o di non distorcere (a causa della distanza temporale) le informazioni che recepivo e gli eventi cui partecipavo. E se nel corso della ricerca la stesura delle note è stata una prima forma di sistematizzazione dei dati che più volte ha portato ad un cambiamento nell’orientamento della mia ricerca, la loro funzione non si è esaurita nel periodo di permanenza sul campo. Queste, infatti, sono state molto importanti anche per la rielaborazione del materiale etnografico e per la progettazione della tesi finale, costituendo una “fonte diacronica” cui accedere per ampliare le attuali argomentazioni.

Un aspetto che vorrei sottolineare delle note di campo è il fatto che, pur costituendo solo una prima messa in forma dell’alterità e quindi pur godendo di una certa libertà espressiva, esse non sono mai pienamente libere dalle convenzioni performative della disciplina, come avviene invece nella scrittura del diario dove è possibile giocare con le idee ed esprimere i nostri sentimenti e le nostre paure senza alcuna cesura o formalizzazione verbale.

Il diario sembra costituire una vera e propria fissazione da antropologi. Fiumi d’inchiostro sono stati versati nelle sue pagine e per l’analisi critica e strumentale dei suoi contenuti. Osannato, criticato, chiuso e dimenticato in un cassetto, nessun antropologo potrebbe fare a meno di affiancare la scrittura “ufficiale” dell’esperienza etnografica a quella più intima e introspettiva del diario.

Per Malinowski il diario era una questione di metodo: l’esperienza di scrivere su di sé non solo influisce sullo stile della propria vita, ma anche sulla direzione della propria ricerca.

Per me il diario è stata un’ancora di salvezza, uno strumento dove riversare le paure e le angosce ogni volta che percepivo “disordine” nella mia vita, quando non ero sicura di poter continuare con la ricerca, tutte le volte che mi era impossibile concretizzare nella scrittura etnografica gli “imponderabili della vita reale”[3]. È diventato, nella stesura della tesi, anche uno strumento di raffronto tra l’immagine che avevo di me stessa nell’intimità e come poi agivo “in pubblico”, tra la mia analisi introspettiva e il lavoro esterno.

 

[1] Citazione presa da Piasere, (2002), dove avverte che questo sperimentalismo testuale contiene in sé un pericolo: quello di far coincidere l’esperienza e il significato con le dimensioni formali della rappresentazione, dove il talento letterario dell’autore può portare all’occultamento di alcune verità con la parallela affermazione di alcune falsità.

[2] Gli altri due elementi di questo quadrilatero etnologico che sembrano delimitare almeno all’inizio le possibilità discorsive dell’antropologia sono l’atemporalità e l’alterità. Per una spiegazione più esaustiva del “quadrilatero etnologico” si veda Fabietti U., Matera V. (1997), “Etnografia. Scritture e rappresentazioni dell’antropologia”, Carocci Editore, Roma.

[3] Questa felice espressione appartiene a Malinowski e fa riferimento a “i fatti minimi, i fatti effimeri, istintivi, senza nome, fatti che la pratica etnografica fa fatica a cogliere e misurare, e che sfuggono anche alla comune osservazione dell’attore sociale, ma anche e soprattutto i sentimenti generali che attraversano quei fatti” (cit. in Sobrero A. M (2009), Il cristallo e la fiamma. Antropologia fra scienza e letteratura, Carocci editore, Roma).