Qualche avvertimento metodologico

La vicinanza con le ragazze affette da fistola ostetrica, rispetto agli altri soggetti coinvolti nell’elaborazione della malattia, è stata la più problematica. In primo luogo per l’iter “burocratico” che ho dovuto seguire per avere accesso alla loro interazione. Infatti, quasi tutte le donne afflitte da questo problema sono state intervistate nel contesto ospedaliero, sia al Fistula Hospital di Mekelle che al Fistula Hospital di Addis Abeba, e per potervi accedere è stata necessaria l’intermediazione di diverse figure e il consenso da parte dei vertici delle istituzioni ospedaliere, un’approvazione che ha tardato ad arrivare.

Essendo stato il Fistula Hospital il luogo privilegiato dell’analisi delle vittime di fistola ostetrica, sarà necessario spendere qualche parola su di esso.

Gli ospedali che in Etiopia si occupano esclusivamente della gestione della fistola ostetrica, sia per quanto riguarda l’individuazione delle pazienti che il loro trasporto nelle strutture mediche, la loro cura e il loro reinserimento nella comunità, sono cinque. Al momento della mia ricerca, una sesta struttura situata a Metu, una zona remota del paese a 12 ore di macchina dalla capitale, era in via di completamento. Il primo centro ad essere aperto fu il Fistula Hospital di Addis Abeba, nel 1975, quando i coniugi Reginald e Catherine Hamlin, entrambi ginecologi, compresero la necessità di creare una struttura apposita che funzionasse come punto di riferimento per la prevenzione della salute materna e per la cura dei problemi ostetrici, in particolar modo della fistola vaginale. Dal 1975 in poi l’operato della fondazione si è notevolmente esteso, riuscendo a coprire i punti strategici del paese. Troviamo, infatti, un Fistula Centre a Bahir Dar nella parte nord occidentale dell’Etiopia, uno a Mekelle nell’estremo nord del Paese, un altro a Yirgalem nel sud ed uno ad Harer nella parte orientale. Il centro in via di costruzione, a Metu, è situato nella zona centro-occidentale della nazione. Tutti i Fistula Hospitals sono privati e vengono sovvenzionati da donatori stranieri, prevalentemente britannici e australiani, essendo l’Australia la terra natale degli Hamlin. I costi per il trasporto delle vittime dal luogo d’individuazione all’ospedale più vicino, le cure necessarie per la riparazione della fistola ostetrica e le spese per il ritorno a casa sono interamente a carico dell’ospedale. La presa in cura totale di queste donne, sia da un punto di vista economico che sanitario è un aspetto fondamentale per gli utenti. Spesso questi ultimi vivono in situazioni finanziare di estrema precarietà e non avrebbero a disposizione le risorse materiali per rivolgersi alle strutture biomediche. Pertanto, la gratuità del servizio incide molto sulle possibilità delle vittime di trovare una risoluzione al loro problema. Sfortunatamente, l’opera d’informazione sull’esistenza di centri rivolti esclusivamente alla cura dei problemi ginecologici delle donne e il loro carattere gratuito non è capillare. La maggior parte delle intervistate ha ammesso di non essere stata a conoscenza del Fistula Hospital in cui si trovava e di esserci arrivata attraverso l’intermediazione di operatori sanitari o leader delle women’associations, che erano riusciti ad individuare il loro problema. Considerando il carattere di segretezza e di vergogna che la malattia assume, come si è visto prima, è plausibile pensare che molte delle sfortunate vittime, soprattutto quelle che risiedono nelle zone più lontane dai centri di cura, restino invisibili all’azione preventiva e risanatrice dei Fistula Hospitals. Lo stesso direttore del Fistula Hospital di Addisa Abeba, il dottor Gordon William, ha ammesso che fare una statistica accurata dei casi di fistola ostetrica è impossibile. “Io posso dirti con sicurezza il numero delle donne che arrivano nei nostri centri, ma quante ne sono affette è impossibile da quantificare”, ha commentato il professore durante la nostra intervista.

Solo tre donne sono state incontrate nel loro ambiente domestico e due avevano subito un precedente ricovero in ospedale per riparare la fistola da parto. Quella dell’ospedalizzazione non è una discriminante da sottovalutare, perché modifica fortemente la percezione che queste donne avevano elaborato prima del loro ricovero, sviluppando in seguito un punto di vista differente sia sull’eziologia della malattia sia sulla cura adatta a risolverla.

Al di là degli impedimenti burocratici che hanno ritardato il mio accesso in ospedale e dunque il contatto con le dirette interessate di questa debilitante patologia, il loro incontro è stato molto difficile anche sul piano personale ed emotivo. Un conto è leggere in un articolo delle cause e delle ripercussioni della fistola ostetrica, raccogliere le interpretazioni di quanti sono implicati nel suo risanamento, altra storia è avvicinarsi a chi quelle cause le ha vissute in prima persone e le loro ripercussioni strutturano ancora la propria vita e modellano le proprie prospettive future. È difficile restituire l’impatto emotivo che il varcare la soglia dell’ospedale mi ha suscitato. Nonostante fossi consapevole che quelle donne erano delle privilegiate, poiché erano riuscite a raggiungere l’ospedale [1] ed ora avevano la possibilità, almeno sul piano fisico, di guarire, non potevo fare a meno di percepire tutta la sconvolgente sofferenza dei loro vissuti. Esistenze che meritano di ritrovare voce all’interno di un’analisi che tenga conto di una delle esperienze più devastanti della loro vita, qual è la fistola ostetrica. Attraverso la strategia della narrazione metterò in risalto l’esistenza di una pluralità di livelli con i quali il corpo e le sue manifestazioni di sofferenza possono essere elaborate. Tra essi il livello biomedico è quello che meno riesce a cogliere la causa ultima di sofferenza delle donne affette da fistola ostetrica, poiché un ruolo di prim’ordine spetta ad altri fattori quali la miseria materiale, la malnutrizione, l’impossibilità di negoziare i termini della propria esistenza sociale ed economica. Queste condizioni di disagio esistenziale emergono attraverso l’ammalarsi del corpo e la malattia viene a configurarsi come incorporazione di un insieme di disuguaglianze sociali, che compongono l’esistenza di quelle persone.

La ricostruzione dell’esperienza di sofferenza direttamente raccontata da una delle vittime di fistola vaginale ci permetterà di comprendere meglio il peso della povertà nel modellare tutte le tappe fondamentali della sua vita, fino ad arrivare al momento dell’insorgenza della malattia. Analizzeremo la mancanza di opportunità di accesso ad un’istruzione di base, il matrimonio in giovanissima età imposto dalla famiglia, il difficile parto a 16 anni avvenuto in casa, la comparsa della fistola vaginale e l’inizio di un lungo e composito percorso terapeutico. Ogni singolo momento rivelerà che non sono le strutture valoriali su cui poggia la società e che plasmano la coscienza individuale dei suoi soggetti ad incidere in maniera determinante sulla comparsa e sulla elaborazione della malattia. Saranno, piuttosto una serie di processi politico-economici e di inopportunità a scegliere diversamente a condizionare, passo dopo passo, l’esistenza di questa giovane donna e delle sue “compagne”. La sua storia sembra ricalcare un canovaccio che, con pochissime e insignificanti variazioni, caratterizza l’esperienza di vita di tutte le vittime di fistola ostetrica da me intervistate. Con questa affermazione non intendo sottrarre il carattere di unicità che ogni vita racchiude, vorrei solo mettere in risalto il fatto che in determinate condizioni di oppressione e di deprivazione materiale, i tratti drammatici della sofferenza finiscono per (de) qualificare nella loro ripetitività la vita di molte persone.

Nel presentare la storia della giovane vittima ricorrerò anche ad alcuni concetti di antropologia medica quale quello di itinerario terapeutico, gestione domestica della salute, sistema medico, che ci aiuteranno a strutturare il discorso entro un orizzonte di senso che tenga conto della specificità del contesto storico-sociale nel quale prende forma l’esperienza di malessere della ragazza.

Seguendo uno schema analitico consolidato durante l’esperienza di campo, che mi ha permesso di penetrare lentamente nelle storie di vita delle donne affette da fistola da parto, consentendomi di esplorarne la complessità di valori, di pratiche, di rappresentazioni e di “inopportunità” materiali che si racchiudono entro questo problema, la storia inizierà con alcuni dati generali sulla vita della giovane donna. Gli eventi da lei vissuti, l’universo simbolico che li sostiene e le condizioni di vita materiali, si incastrano come in un mosaico, portando drammaticamente all’insorgenza della fistola ostetrica e all’inizio di un difficile percorso di risanamento, ancora in fieri al momento del nostro incontro.

Quello che vorrei anche mettere in risalto introducendo adesso la storia di Abeba[2] è il senso profondo del malessere nell’esperienza intima del soggetto che lo vive, lontano da ogni riduzionismo di stampo biomedico. L’obiettivo, in particolare, è quello di evitare che la malattia sia solo una questione di numeri, di statistiche, di astrazioni indirette e di concezioni disincarnate, per ridare voce e corpo a chi quelle situazioni di sofferenza le ha incorporate e le esperisce quotidianamente. Basandosi su un approccio dialogico e interpretativo[3] delle forme narrative prodotte dai sofferenti per comunicare la propria percezione soggettiva dell’esperienza di malessere, cercherò di mettere in risalto come questa sofferenza operi una modificazione dell’habitus[4], cioè del modo di stare al mondo delle persone che soffrono, e come esso attivi l’urgenza di immaginare e rappresentare la propria malattia in forme comunicabili. Le forme elaborate dai soggetti per raccontare, spiegare e interpretare il proprio malessere sono sempre prese in una triangolazione fra dimensione individuale, dimensione sociale e processo storico, una struttura in cui il piano corporeo, le simbologie culturali e le limitazioni che caratterizzano la realtà storica di queste persone s’intrecciano per formare un vissuto complesso e drammatico.

 

[1] Possibilità che è preclusa ad un numero imprecisato di ragazze , dal momento che non c’è una stima precisa della malattia. I medici e gli esponenti delle organizzazioni che hanno a cuore il miglioramento dello status sociale e della salute della donna sono costretti ad ammettere che non è possibile quantificare il numero delle vittime di fistola vaginale, né poterci entrare in contatto in ogni zona del Paese, sia per problemi strutturali, sia per l’alone di segretezza che circonda la malattia.

[2] Il nome è stato modificato per ragioni di privacy.

[3] La metodologia di studio dialogico e interpretativo delle forme narrative (narratives) è stata messa a punto da un’importante corrente di studi dell’antropologia statunitense, nota come Scuola di Harvard. All’interno di questo filone di studi, iniziato negli anni settanta del Novecento, i suoi più autorevoli esponenti hanno cercato di sottrarre la definizione della malattia ad un codice biologico oggettivo, per dare attenzione alla dimensione culturale dell’esperienza di sofferenza. In questo senso sono stati esemplari i lavori pioneristici di A. Kleinman e di B. Good, tesi nello sforzo di enfatizzare l’esperienza individuale della malattia così come viene espressa nei racconti dei malati. Partendo dal presupposto che l’esperienza di malattia opera una destrutturazione del mondo comprensibile, il suo racconto è considerato come una modalità di inquadramento dell’esperienza destabilizzata e destabilizzante. Esso, dunque, punta a ricomporre questo malessere in un ordine di significato comprensibile e condivisibile.

[4] È Marcel Mauss (1965) ad usare questo termine latino per designare quella ragione pratica che struttura le diverse forme corporee di stare al mondo, naturalizzandole attraverso l’occultamento del processo di apprendimento di determinate “tecniche del corpo”, che avviene con un’esposizione del nostro corpo all’ambiente sociale esterno. Essendo quest’ambiente culturalmente e storicamente determinato, ne consegue che le diverse forma di gestualità incorporate non sono naturali, ma il frutto di processualità che variano con il variare dei contesti. Tuttavia la grande capacità mimetica del corpo di assorbire il sapere e di naturalizzare la tecnica appresa, fa si che risulti impossibile, da una prospettiva emica, riconoscerne il suo carattere socioculturale. Eppure, quando eventi improvvisi e destrutturanti, come l’esperienza di una malattia, si verificano la naturalità del proprio essere nel mondo viene messa in discussione e servono nuovi parametri per far rientrare se stessi in un’esperienza relazionale comprensibile e condivisibile.