TBAs: un ruolo di responsabilità nella buona riuscita del parto

Abbiamo visto come la progressiva medicalizzazione delle dinamiche relative alla gravidanza e al parto abbia portato, negli anni, ad una medicalizzazione delle pratiche e delle conoscenze attribuite a chi, nel riconoscimento sociale tradizionale, spetta un ruolo primario nella gestione di questi aventi: le Traditional Birth Attendants. Molte di queste donne hanno ricevuto dei training da parte della wareda in cui vivono, organizzati a livello governativo, che le ha dotate di un armamentario tecnico (alcune di loro mi dicono di possedere i guanti di lattice per venire a contatto in modo sicuro con la partoriente, e anche lo strumento che permette di sentire il bambino) e di un bagaglio di conoscenze relativo alle pratiche “giuste” da seguire per scongiurare pericoli durante il parto. Quest’ultimo, dunque, viene percepito sotto una nuova visione, come un evento carico di rischi in cui sono coinvolte in prima persona le Traditional Birth Attendants. Infatti, all’interno del mondo delle TBAs e dell’opinione comune, si è affermata l’idea che un parto non andato a buon fine, dove la madre ha subito danni, è conseguenza di “mani inesperte”. Tutte le levatrici hanno affermato che “una buona tba deve saper riconoscere subito l’insorgenza di una complicazione” e, in tal caso, non deve indugiare a portare la partoriente nel centro medico più vicino. Tuttavia, il lavoro delle TBAs inizia prima del momento del travaglio, quando occorre prevenire e prevedere gli eventuali rischi cui la donna incinta va incontro. Il loro ruolo, negli ultimi tempi, si è configurato sotto forma di un ponte di comunicazione tra la comunità e la medicina moderna. Anzi quest’ultima sembra convalidare l’operato delle levatrici tradizionali solo fin quando esso rimane confinato all’azione di prevenzione e di sensibilizzazione delle donne incinte sui pericoli della gravidanza e del parto, e sulla necessità di rivolgersi a strutture mediche competenti per tutto il periodo della gestazione. Si è così assistito, in anni recenti, ad una nuova configurazione dell’evento parto e delle figure dedite alla sua buona riuscita, dove l’attenzione da parte dei programmi di salute ministeriale è stata posta esclusivamente sui fattori di rischio biomedici senza prendere in esame altre componenti che allo stesso modo, se non in misura maggiore degli strumenti di prevenzione e di intervento medici, concorrono a terminare in maniera soddisfacente il parto. Forse è proprio per questa scarsa attenzione a questioni concernenti la sfera che va al di là dei fattori puramente fisiologici, che partorire in casa, con l’ausilio della tba di fiducia, si configura ancora come la scelta prediletta da molte donne. Tuttavia, possiamo parlare di scelta solo se facciamo riferimento al contesto urbano, dove la compresenza di risorse di diverso tipo (religiose, tradizionali, biomediche) amplia il campo delle possibilità degli utenti di appellarsi a tradizioni terapeutiche differenti nella gestione dei problemi di salute, come vedremo poi quando prenderemo in esame la percezione della malattia da parte delle sue vittime e dei percorsi seguiti per prevenire o curare il problema.

Nelle zone rurali, al contrario, le risorse tradizionali si configurano come l’unica alternativa possibile e anche per quanto riguarda la gestione del parto, l’affidamento alla tba diventa una necessità strutturale.

Questa disparità di opportunità è nota a tutta la comunità e anche le TBAs con cui ho parlato hanno ammesso che i problemi legati al parto sono concentrati principalmente nei villaggi.

Però non renderemo giustizia della reale percezione dell’evento parto e dei problemi ad esso connessi se ci limitassimo alle spiegazioni finora emerse, dove la logica causazionale è legata esclusivamente allo schema biomedico con cui recentemente sono stati plasmati i modelli esplicativi tradizionali.

A fianco alle spiegazioni di stampo biomedico, con cui vengono percepiti e spiegati i problemi che possono insorgere come conseguenza di un parto complicato, non gestito nel luogo e attraverso gli strumenti giusti (quelli della medicina occidentale), convivono modelli esplicativi che ancorano i propri costrutti in un dominio che gli studiosi dei sistemi di credenze mediche hanno definito “sovrannaturale”. Esso differisce dalla sfera del “naturale” perché le modalità di classificazione e di spiegazione della malattia non sono ricercate all’interno del corpo del paziente, in un’analisi dei processi fisiologici che regolano la sua natura di essere biologico, ma nelle relazioni che l’essere umano intesse con gli altri uomini della comunità e tra quest’ultima e il mondo cosmologico.

Queste profonde implicazioni con la sfera spirituale sono emerse anche dalle spiegazioni fornite dalle TBAs con cui mi sono relazionata, circa i pericoli e le malattie che si connettono al parto.

Dopo avermi elencato i fattori di rischio del parto, legati alla giovane età della partoriente, alla sproporzione del suo bacino rispetto alla testa del nascituro, alla bravura della tba che deve sapere quando e come intervenire e quando demandare agli operatori ufficiali, alla mancanza di strumenti tecnici per agire in caso di complicazioni, il tutto esplicitato quasi fosse una ripetizione della lezione imparata durante i training ricevuti, le spiegazioni si spostavano su un altro versante. La maggior parte delle levatrici tradizionali, infatti, concordava sul fatto che la buona riuscita del parto è volontà di Dio.

“Noi non possiamo fare niente senza il volere di Dio. Dio è buono e vuole il nostro bene, però è lui che può tutto e noi non possiamo farci niente” sostiene Mama Alima, quando finalmente ha sciolto le sue iniziali diffidenze nei miei confronti, credendomi una “spia” del governo inviata per controllare che il suo lavoro fosse svolto secondo le regole.

“Se il bambino si gira questo crea dei problemi e la mamma si può ammalare. È Dio che fa girare il bambino ed è lui che lo fa ritornare al suo posto” mi dice Mama Kiros, una levatrice tradizionale che vive a Mekelle.

Dunque, vediamo che la scena del “pericolo” è sempre la stessa, il parto, ma le cause sono completamente diverse. Accanto a fattori di ordine naturale, si inseriscono elementi causativi che appartengono all’universo spirituale e valoriale su cui poggia l’intera comunità. Anzi, possiamo dire che questi agenti spirituali precedono e strutturano tutti gli altri elementi di ordine diverso, che sono secondari nel determinare l’evento patologico. C’è, quindi, una sottostruttura interpretativa e causativa che va al di là del piano naturale, ma che con esso intrattiene uno stretto rapporto fatto di rimandi continui i quali evidenziano la multi causalità di ogni esperienza di sofferenza. Se, infatti, essa può avere un’esplicitazione corporea, attraverso l’alterazione di processi organici legati a fattori empirici e contingenti, è ad un altro tipo di compromissione e di alterazione che bisogna prima guardare per risalire all’origine della malattia. Questa alterazione riguarda l’ordine morale e cosmologico su cui ogni comunità struttura i propri valori e le proprie azioni.

Altra figura fondamentale nel determinare l’esito positivo del parto e scongiurare possibili ripercussioni per la madre e per il bambino è Maria, la madre di Gesù. Maria, nella credenza popolare, è la protettrice delle partorienti ed è alle sue preghiere e alla sua volontà che le TBAs si affidano affinché il parto vada a buon fine e sia preservata la salute della gestante e del nascituro. Più delle tecniche apprese durante i training, più delle precauzioni che hanno interiorizzato come parte di un sapere tradizionale, è Maria il loro punto di riferimento, la cui invocazione perpetua da parte dell’universo femminile che si dispiega intorno alla partoriente contribuirebbe a rendere positivo l’esito del parto.

Non sempre, però, i problemi vengono scongiurati e la donna incinta potrebbe ritrovarsi a dover fronteggiare una serie di malattie. Tra le patologie collegate al parto, sia per la sua natura empirica che simbolico-religiosa, tutte le TBAs che ho intervistato non hanno mai accennato spontaneamente e come principale problema alla fistola ostetrica. A dire il vero, la nosologia di fistola da parto è quasi sconosciuta alla maggior parte di loro. Le poche che ne sono a conoscenza ammettono di aver sentito il termine per la prima volta durante i training cui hanno partecipato, essendo la fistola uno dei principali pericoli su cui insistono i programmi governativi di professionalizzazione e standardizzazione delle risorse terapeutiche tradizionali che concernono le TBAs.

Particolare ho trovato la posizione di Mama Alima quando le ho chiesto se uno dei problemi che possono sorgere durante il parto è la fistola ostetrica e se aveva mai sentito parlare di questa patologia.

“Può darsi che si chiami così e che io la conosca, ma questo è un segreto. Se anche lo sapessi non te lo direi perché è un segreto tra la levatrice e la partoriente. Tu queste cose non puoi dirle”.

C’è anche chi ha conosciuto il termine alla radio, ma ammette di non sapere bene cosa significhi e di non utilizzarlo. È il caso di Mama Taddelu che afferma:

“Si l’ho sentito alla radio, ma tu puoi spiegarmi bene di che cosa si tratta?”

Alcune di esse ne parlano nei termini di una mutilazione genitale. Ecco cosa mi risponde Mama Kiros alla stessa domanda che ho posto alla levatrice precedente.

“Si, la fistola vaginale è come una mutilazione”.

Utilizzando la definizione di mutilazione, non credo che la tba abbia voluto fare riferimento alla classificazione canonica in cui vengono suddivise, percepite e spiegate le mutilazioni genitali femminili. Credo, piuttosto, che Mama Kiros abbia voluto mettere in risalto un carattere più generale del termine mutilazione, che ha a che fare con la modificazione, con il cambiamento di una specifica parte del corpo e della sua funzione primaria. Questa visione è coerente con quanto è poi emerso nel proseguo dell’intervista e che ha trovato conferme nelle spiegazioni addotte anche dalle altre levatrici tradizionali. Prima di addentrarmi in questo discorso, però, vorrei continuare con il filo delle nosologie e delle eziologie che caratterizzano le spiegazioni delle TBAs.

Come per i guaritori tradizionali, se la categoria nosologica di fistola ostetrica risuona spesso priva di significato, ad essere conosciuta è la sua manifestazione sintomatica: l’incontinenza. Le TBAs conoscono molte bene il rischio che in seguito al parto una donna possa rimanere gravemente danneggiata e avere ripercussioni devastanti sia a livello fisico che sociale, eppure sono molto restie a parlarne. L’incapacità di una donna di controllare l’urina è un problema che va tenuto nascosto, di cui è meglio non parlare perché “qui la gente è cattiva” mi dice una tba e se le persone lo scoprono “la notizia viene gridata ai quattro venti e tutti parleranno male della ragazza e nessuno vorrà più avere a che fare con lei”. Deve pertanto rimanere “un segreto tra la TBA e la partoriente”, come afferma Mama Alima, che poi aggiunge:

“Quando il loro corpo si apre tu ti lavi bene le mani, ti infili i guanti, lo spingi dentro e lo cuci stretto”.

Queste parole sono esemplificative per introdurre il discorso cui accennavo prima riguardo la modificazione corporea. È opinione condivisa da quasi tutte le TBAs intervistate che la causa principale dell’incontinenza in seguito al parto è legata “all’utero che si è girato” oppure, ancora più spesso, “all’utero che è andato fuori”. Infatti, è in questi termini che il problema viene nominato tra le levatrici tradizionali. Dunque, accanto ad una classificazione nosologica basata sui sintomi (“incontinenza di urina”, “mixaggio del tubo dell’urina con quello delle feci”), ne troviamo una basata sull’anatomia, le cui implicazioni sul piano simbolico e sociale sono di grande impatto per la donna che ne porta i segni corporei.

Nominando la malattia in base alla sua posizione anatomica, quello che si vuole mettere in risalto, a mio avviso, è la destrutturazione del corpo femminile e dunque una perdita di legittimità dello status di donna, così come viene modellato dall’universo simbolico e valoriale della comunità di riferimento. Infatti, più di una tba insiste sul fatto che se la “vagina fuoriesce” una donna non può essere più considerata tale.

“Se hai l’utero fuori non puoi più essere una donna, non puoi più avere relazioni con gli uomini. Vieni esposta ai quattro venti, sei compromessa. Non puoi più avere rapporti sociali con le persone perché puzzi, perché mentre cammini ti perdi la pipì” (Mama Alima).

“Come puoi essere una donna se la tua vagina va fuori. Nessun uomo verrà più con te. Tuo marito ti lascerà per un’altra donna con cui avrà altri bambini e nemmeno la tua famiglia ti vorrà in casa perché puzzi” (Mama Taddelu).

Riporto solo due delle testimonianze raccolte circa l’impossibilità di essere considerata ancora una donna, perché nelle loro motivazioni sostanziali sono tutte molto simili. Così come sono simili le procedure terapeutiche cui le TBAs fanno riferimento per curare il problema. Infatti, c’è concordanza sul fatto che sia la biomedicina l’istituzione privilegiata cui appellarsi per fronteggiare la malattia.

“Un tempo le donne che non riuscivano a controllare l’urina si curavano con la medicina tradizionale, ma adesso ci sono i medici, c’è tanta gente intelligente che ha studiato e che sa come curare il problema” così Mama Kiros giustifica la scelta di indirizzare le donne che si rivolgono a lei con il problema dell’incontinenza all’istituzione biomedica.

Anche Mama Alima riconosce l’opportunità di rivolgersi ai medici professionisti per ripristinare il problema e pur tuttavia ammette che un tentativo può essere fatto anche con i metodi tradizionali, che permettono alla ragazze di seguire la cura all’interno del suo ambiente domestico senza doversi esporre agli occhi esterni. Ecco il suo rimedio:

“Si legano strette strette le gambe della ragazza, si macina la polvere di antimonio e si fa il tush (i suffumigi), così la parte aperta diventa sempre più stretta e si richiude”.

La tecnica della suffumicazione non è un rimedio personale di Mama Alima, dal momento che rientra nelle procedure terapeutiche di tutte le TBAs che ho incontrato e mi è stato nominato anche da numerose pazienti, come primo tentativo del loro percorso terapeutico. Nonostante le proprietà seccanti e astringenti delle sostanze bruciate, resta tuttavia unanime il riconoscimento della necessità di un intervento medico, se si vuole eliminare completamente il problema. Tuttavia, come esiste un principio superiore che regola la salute e la malattia delle persone (Dio e le altre figure della tradizione spirituale etiope), lo stesso principio interverrà a ripristinare il benessere della malata, al di là dell’efficacia della tecnica chirurgica.

“Alla fine è Dio che ti fa guarire. Anche i medici che ci visitano lo fanno perché sono mandati da Dio” sostiene Mama Tekean, riconfermando la giustapposizione di modelli interpretativi aderenti a diversi ordini di fattori (la sfera “naturale” e quella “spirituale”), tipica del panorama eziologico etiope.

Per concludere, dall’analisi delle concezioni nosologiche ed eziologiche emerse dai diversi attori coinvolti nel processo di ricostruzione della malattia, è emerso che quest’ultima viene percepita e interpretata attraverso orizzonti differenti che possono variare a seconda del contesto e della soggettività della persona interpellata. Questi diversi orizzonti rappresentano le multi sfaccettature dell’universo culturale locale e del sistema medico etiope, dove sia le conoscenze diffuse sui problemi di salute che quelle specialistiche della tradizione, nonché l’approccio biomedico ormai esteso in alcuni settori, concorrono insieme, in uno scambio di voci polifoniche, a strutturare, interpretare e fronteggiare un particolare evento di sofferenza. Come sostiene Wondwosen (2006), le modalità di nominare ed interpretare la malattia si formano a partire da tre sorgenti: le conoscenze popolari, quelle religiose e il sapere biomedico. Nel caso specifico della fistola ostetrica, la sua comprensione passa anche attraverso una specifica concezione del corpo femminile, del suo funzionamento fisiologico e delle sue relazioni sociali. Questi aspetti introducono il cuore della questione e ci impongono di andare ad analizzare il corpo quale oggetto d’indagine privilegiata per le ricostruzioni della malattia. Esso apparirà anche come lo strumento primario d’incorporazione delle disparità tra uomo e donna all’interno di un preciso contesto culturale e di introiezione e materializzazione della sofferenza sociale di chi, all’interno della sua comunità, si trova in una posizione di marginalità e subordinazione rispetto agli assetti dominanti di potere.